martedì 9 dicembre 2014

Un outfit per le Feste.



Tutti abbiamo presente la somma regola: “lessi is more”, enunciata dal celebre designer tedesco Ludwig Mies van der Rohe. 
Il grande maestro del Movimento Moderno, impegnato, negli anni venti e trenta dello scorso secolo, a coniugare il concetto di bellezza con quello di funzionalità, non doveva, tuttavia, essere un assiduo frequentatore di feste dicembrine.
E’ innegabile che, se desideriamo essere impeccabili ed eleganti, il tubino nero indossato dalla mitica Audrey è un classico intramontabile, un sacro dogma del buon gusto.
Ma, concediamoci il divertente lusso di essere molto “more”, almeno per una sera all’anno, e liberiamo la nostra parte più stravagante, assecondando un'irrefrenabile voglia di rosso, di paillettes e di lustrini.
Vi propongo una soluzione esplosiva, ma dal costo contenuto, affinché abbia il sapore di un cioccolatino sfizioso, non l’effetto debilitante di un salasso!

Iniziamo con un vestito in stile vintage, con scollo a cuore, gonna a ruota e vezzoso fiocco in vita, in una tonalità di rosso scura ed intensa, che dona a tutte un’aria sofisticata, senza rubare la scena allo scarlatto che contraddistingue la sagoma di Babbo Natale.
Urgono, ora, le scarpe: croce e delizia di ogni donna, soprattutto se dotate di tacco vertiginoso.Vi suggerisco una peep-toe con motivo a intreccio, in satin color nero
Per completare l’outfit, vi invito a frugare con perizia nell’armadio e nei cassetti. Vi basterà rispolverare una mini borsetta a mano, meglio ancora se non dello stesso colore delle scarpe, ma in armonia con la nuance del vestito; e una parure scintillante, illuminata da cristalli Swarovski, o presunti tali. 
In caso ne siate sprovviste, le catene di accessori low cost vi attendono!
Finalmente, è giunto il momento di osare con il make-up: smalto e rossetto color porpora non potranno essere assenti giustificati. Consigliare il punto di colore per laccare le labbra, è arduo compito; a discapito di quanto si pensi, infatti, il rossetto rosso sta bene a tutte, basta trovare la sfumatura perfetta che si armonizzi con l’incarnato, lo smalto dei denti e la forma della bocca.
In questo periodo prediligo "Color Elixir" di Maybelline, una lacca per labbra che regala un effetto morbido e setoso.
E, infine, per le più eccentriche, un fascinator, provvisto di veletta, è la mossa vincente per essere indimenticabili, al contempo vintage lady e ironica vamp. 
Io non vi rinuncerò di certo! Buon divertimento.

Emma Fenu







lunedì 8 dicembre 2014

E' sempre il momento di intonare un Canto di Natale.



Io onorerò sempre Natale nel cuore, io ne serberò il culto tutto l'anno. Vivrò nel passato, nel presente e nell'avvenire”.

I romanzi di Charles Dickens sono magia letteraria. Incantano e rapiscono fin dai memorabili incipit, conducendo il lettore in un mondo talmente reale da apparire grottesco, come in una caricatura deformante, dove la denuncia sociale non è sterile acredine, ma invito alla riflessione.
Ma non solo, le opere dello scrittore ottocentesco, divertono, nel senso etimologico del termine, ossia portano altrove, in una manciata di righe.

"Marley, prima di tutto, era morto. Niente dubbio su questo. Il registro mortuario portava le firme del prete, del chierico...". 
Ed ecco qua, il libro è appena iniziato e io sono già proiettata ne "Il Canto di Natale"!
Mi sdegno per la smorfia sprezzante dipinta sul volto di Scrooge, tendo la mano per accarezzare il faccino tenero di Tim, tremo al cospetto dei tre spettri e mi sciolgo in calde lacrime di commozione davanti ad una tavola imbandita a festa, dove c'è sempre posto per un ospite inatteso.

Tuttavia, non vi racconterò la storia narrata da Dickens nella sua celebre opera. E’ un libro talmente intenso e coinvolgente, nella sua brevità e scorrevolezza, che merita di essere riletto, ancora e ancora, ogni Dicembre. Nessuna recensione, infatti, potrebbe rendergli il giusto tributo.

Vi scriverò, invece, di destino, e della possibilità di cambiarlo, grazie alla volontà di sapersi mettere in discussione; di liberarsi di inutili zavorre, per riappropriarsi di inestimabili tesori sconsideratamente accantonati; di accogliere l’alba di un nuovo giorno con un sorriso che si riflette sui visi di chi ci è accanto, anche soltanto per pochi passi, lungo la strada che ci aspetta. 
A Natale siamo tutti più buoni, si suol dire. 
Ad essere onesti, si è più recettivi, poiché più propensi a fermarsi, rallentando il ritmo convulso della quotidianità, per assaporare un ricordo che, talvolta, lascia un retrogusto amaro, o per pregustare una fetta di futuro, lungo la scia di un sogno. 
Non diventiamo altruisti nello spazio di pochi giorni, scanditi da neve e luci intermittenti, per poi spegnerci nell’indifferenza e nell’egoismo, a festa finita. 
Cerchiamo solo di placare il borbottio della coscienza, che pare trovare solenne udienza solo se di rosso vestita. 
Tuttavia, se le secche di Gennaio ci ritroveranno tali e quali eravamo al cadere delle prime foglie brunite, non avremo saputo ascoltare abbastanza il tintinnio delle slitte trainate da renne. Saremo rimasti sordi e il destino ci osserverà beffardo, nutrendo il nostro fallimento con briciole di panettone stantio.
Eppure ci spetta l'onore della scelta: basta ritagliare il nostro tempo per i genitori anziani o per i figli piccini; indignarsi per le ingiustizie, senza esserne omertosi complici; difendere diritti, invece che sottrarli, combattendo una guerra fra poveri; concedere un sorriso, prima di pretenderlo.
Sono le piccole cose, messe in fila come i vagoni di un trenino fiammante scartato ai piedi dell’albero, che cambiano il futuro del mondo, se siamo memori del passato e solerti allievi del presente. 
Questa è la mia favola, da scandire piano, con dolcezza, la notte della vigilia. E ogni favola è possibile, basta crederci.

Risero alcuni di quel mutamento, ma egli li lasciava ridere e non vi badava; perché sapeva bene che molte cose buone, su questo mondo, cominciano sempre col muovere il riso in certa gente. Poiché ciechi aveano da essere, meglio valeva che stringessero gli occhi in una smorfia di ilarità, anzi che essere attaccati da qualche male meno attraente. Anch'egli, in fondo al cuore, rideva: e gli bastava questo, e non chiedeva altro”.

citazioni tratte da Charles Dickens, Il Canto di Natale.



domenica 9 novembre 2014

Un caldo abbraccio di Lana.


"Chi lavora con le sue mani è un lavoratore. Chi lavora con le sue mani e la sua testa è un artigiano. Chi lavora con le sue mani e la sua testa ed il suo cuore è un artista".
Francesco D'Assisi

Eccomi a voi, in altre vesti.
In soffici vesti di lana, per essere precisi.
No, non ho deposto la penna a favore dei ferri, entrambi sono privilegiati strumenti di espressione del mio mondo interiore.
Mentre i miei pensieri e le mie idee corrono e si rincorrono, fra epopee e personaggi fatti di carta e sogno, infatti, le mie mani continuano a muoversi, sia per digitare lettere sulla tastiera del portatile, sia per confezionare un capo in lana
Non c'è soluzione di continuità, in primis perché, grazie alle due X in sequenza dei miei cromosomi, posso svolgere più attività in contemporanea: ossia leggere, scrivere, analizzare, recensire, intervistare, sferruzzare, registrare messaggi vocali su whatsapp, destinati ad un'amica, programmare nel minimo dettaglio il prossimo week end (e i prossimi dieci anni, se sono in vena) con mio marito, sgranocchiare patatine.
In secondo luogo, perchè ogni mia creazione è una storia che prende vita, come un romanzo o un quadro, prima concepita e, infine, generata per raccontarsi, o attraverso parole vergate ed immagini evocate o attraverso sequenze di colori e sensazioni tattili.
Talvolta, invece, mi concentro esclusivamente sullo sferruzzare, come assorta in una forma di meditazione antica. Mi siedo, con le gambe incrociate, a lato di una grande finestra da cui il mio sguardo domina i tetti di Copenhagen, accendo una piccola lampada e qualche candela, in quanto le serate dell’autunno nordico sono piuttosto buie.

Ecco cosa si cela dietro ai capi in lana che realizzo con frenetica passione: non sono solo accessori sfiziosi, di sicuro impatto sul look personale di ciascuna, ma stralci di poesia, fantasie che, come cavalli alati, si lasciano dolcemente imbrigliare da fili di lana pregiata, che intreccio personalmente.
Adoro coniugare tendenze contemporanee con ispirazioni retrò, per originare creazioni estremamente versatili, caldissime, comode, ma, al contempo, irresistibilmente chic. 
Benvenuti, dunque, nel mio mondo incantato, popolato da cappelli, sciarpe, cappucci, poncho, stole, scialli, colletti, scalda collo, guanti, copertine e moda per bambini
“Ogni Favola è possibile”: basta un buon libro da leggere e, magari, uno da scrivere; il caldo abbraccio della lana sulla pelle infreddolita e la visione di un gomitolo apparentemente inerte, che, non appena toccato dai ferri, simili a bacchette magiche, inizia la sua danza, ritmata dal ticchettio delle punte che si sfregano. 
Abracadabra… la magia delle piccole cose è a portata di “lana”.

"La vita è un gomitolo che si consuma. Si spera che al centro ci sia la felicità e così continuiamo a tirarlo, ad arrotolarlo velocemente come velocemente viviamo la vita senza pensare che con quel gomitolo potremmo fermarci a cucire i nostri giorni e ricamarne su di essi momenti stupendi".
Domenico Torrelli


Emma Fenu

Un cappuccio da Favola




e un altro cappuccio per una piccola orsetta!






mercoledì 22 ottobre 2014

Sferruzzare in compagnia sotto i tetti di Copenhagen.


"Un’amicizia tra donne è come un continuo rammendo; è un maglione, anzi tanti maglioni; è il sospiro di sollievo con cui, il primo giorno d’autunno, apriamo l’armadio e loro sono lì, che ci aspettano. 
Sono maglioni di shetland, che pizzicano un po', come amiche dal carattere pungente, non risparmiano critiche taglienti; sono i pull modaioli, che amano stare in vetrina, sotto gli occhi di tutti, amiche energizzanti… 
E poi c’è il cardigan comprato per caso un giorno di pioggia in campagna o in una città straniera. faceva così freddo e non avevamo niente di caldo in valigia. E invece quel maglione comprato per caso diventa il nostro preferito, non sappiamo più farne a meno. E’ il maglione che ci mettiamo quando siamo tristi, quello in cui stiamo più comode. E’ l’amica che chiamiamo quando la vita ci fa sentire al freddo. Quella che sa come consolarci, sempre".
Lisa Corva

Mi sono trasferita a Copenhagen lo scorso Luglio, nel tripudio della meravigliosa estate danese, che non è una morsa afosa, ma l’abbraccio caldo e gioioso di un sole capace di far sfavillare i colori sgargianti dei parchi lussureggianti; delle case variopinte del porto di Nyhavn, proiettate sulle acque dei canali, solcati da imbarcazioni gremite di turisti; dell’infinito susseguirsi di edifici ricoperti di mattoncini e adornati di modanature candide; della “pelle” bronzea, dalle sfumature che rammentano gli abissi marini, che riveste la statua della Sirenetta.
L’autunno arrivò in fretta, e con esso, nell’atmosfera magica, tipicamente nord europea, del Natale incipiente, la voglia di leggere un libro, con, stretta fra le mani, una tisana bollente, e liberi nella mente mille pensieri; la voglia di poggiare i piedi scalzi sopra un tappeto di pelliccia ecologica, mentre, dalla propria finestra, si osserva lo scrosciare della pioggia.
Era giunto il momento ideale per rispolverare i miei amati ferri ed iniziare a dar vita, tramite l’intreccio fatato di fili di lana e seta, a cappelli, sciarpescaldacollo, poncho, guanticopertine, e scaldatazza.
Io sono una donna a cui piace pensare, scrivere, leggere, conoscere, perdersi in fantasie, credere ed elaborare teorie e ideali, emozionarsi, vivere intensamente e introspettivamente.
Sono una donna di cuore e di testa, quindi, ma non sarei completa senza le mie mani, senza il potere creativo che mi donano, dando forma alle immagini che popolano i miei sogni.
E, dopo l’autunno, fu la volta dell’inverno, cadenzato da giornate molto brevi; raggi di sole frequenti quanto avvistamenti UFO; bufere; susseguirsi di fiocchi di neve piccoli, gelati e pungenti, che attraversano il cielo in orizzontale, in balia del vento polare, il quale soffia con veemenza e rievoca alla mente orsi bianchi e distese immacolate di ghiaccio.
Gelido ma ammaliante, l'inverno di Copenhagen. A volte lo si detesta, ma se ne subisce il fascino.
Sferruzzare, allora, non è più stato per me solo un momento intimo, ma è divenuto, una forma di collante sociale, un’occasione d’incontro, in una città cosmopolita, fra donne e ragazze, tutte appassionate di handmade, non solo danesi, ma provenienti da vari paesi: dall’Italia, alla Spagna, alla Russia, al Marocco, al Giappone, al Brasile. Insieme ai fili di lana, si sono intrecciate storie personali, lingue e costumi, esperienze e sogni.
All’interno delle nostre mura domestiche, ma anche di caffetterie o di centri culturali, ci incontriamo, scambiandoci consigli, ciascuna con il proprio metodo, con il proprio retaggio culturale, con la propria voglia di comunicare e condividere non solo schemi e punti, ma anche un ricordo, un progetto o una crostata di marmellata preparata con le proprie mani.
Spesso ci si dedica al proseguimento di un proprio lavoro e, allora, immagini di incarnati ambrati e poncho in alpaca si fondono, in meravigliose osmosi, a quelle di occhi azzurri e maglioni abbelliti da motivi in cui si reiterano renne stilizzate.
A volte, invece, si sferruzza per un progetto comune, come una coperta formata da tantissimi quadrati colorati cuciti fra loro, e ognuno di essi racconta una storia.
Ci sono quadrati con qualche imperfezione, realizzati dalle neofite, ancora alle prese con i primi rudimenti; ci sono quelli con il punto jacquard in toni vivaci, che ci riportano alla mente le distese verdi e il cielo azzurro del Perù; ci sono quelli monocromi, bianchi come le distese di neve e dai punti in rilievo, che evocano i cristalli di ghiaccio; ci sono quelli rosa tenue, confezionati da chi culla nel proprio ventre una bimba; ci sono quelli che ricordano le molteplici e armoniose sfumature delle matrioske.
Ma non immaginateci in esiguo numero, riunite come in una sorta di sabba di streghe della lana o di carboneria delle adepte ai ferri e all’uncinetto!
A Copenhagen la creatività e il lavoro handmade sono, infatti, notevolmente apprezzati a livello sociale: pensate che si insegna a sferruzzare, persino ai maschi, durante gli anni della scuola primaria. Ma, soprattutto visitando i celebri mercatini, che animano la città nelle piazze, in prossimità dei centri commerciali e nel fantastico parco di Tivoli, i chioschetti di Cristania, il ben noto quartiere hippy, e i negozi destinati all’hobbistica, si possono ammirare veri capolavori di fantasia e passione, che fanno parte del guardaroba di ogni danese che si rispetti.
Lo so, in Italia ci si crogiola, da tempo, nel calore estivo, ma qui l'autunno ci invoglia a circondarci di colorati gomitoli.

Arricchiamoci delle nostre reciproche differenze”.
Paul Valéry 

Emma Fenu
pubblicato su Casa e Trend

Ed ora, un assaggio della collezione 2014!



















domenica 12 ottobre 2014

Il fascino del gatto nero. Simbologie e superstizioni.




Se un gatto nero attraversa la strada che state percorrendo, è un indizio.
Vi è un enigma che aspetta di essere svelato e l’impresa che vi attende sfiorerà l’impossibile.
Sappiatelo. Dovrete fare appello al vostro sesto senso e al vostro intuito, e forse non saranno sufficienti.
Perché, se un felino corvino decide di recarsi dal lato opposto di un sentiero, evidentemente si sta recando in un luogo di propria conoscenza.
Si dirige, a passo lesto, verso l’antro di una strega? Vuole aderire ad una setta di maghi? E’ in cerca di un topolino? Ha sentito l’irresistibile richiamo d’amore di una focosa amante?
L’unico modo per saperlo è pedinarlo o porgli direttamente la domanda, nella speranza di una risposta che siate in grado di decifrare.
No, non vi porterà sfortuna, al massimo farete perdere tempo al gatto, qualora, gentilmente, volesse prestarvi ascolto.

La superstizione popolare, che taccia i gatti neri di essere menagrami e strumenti del male, ha origini antichissime e si è tramandata di generazione in generazione.
Andiamo a ritroso. Ancora e ancora.
Giungiamo a tempi arcaici, gravidi di Piramidi, di sfingi, di geroglifici, di templi candidi, di capitelli scolpiti con le foglie d’acanto.
Bruciamo incenso davanti alle effigi di figure femminili connesse alla sacralità attribuita ai gatti, ossia alle dee egizie Bastet, dalle fogge feline, e Iside. Quest'ultima, divenuta, in seguito, Artemide per i Greci e Diana per i romani, venne associata all’oscurità della notte e al nero assoluto e insondabile delle tenebre.
Con l’avvento del Cristianesimo, per scongiurare il proseguo dei culti pagani, i felini furono definiti incarnazione del demonio, in quanto simbolo di ciò che doveva essere condannato. 
I gatti neri, in particolare, assunsero una connotazione maligna, poiché ritenuti alleati delle streghe.
Donne reiette e i loro corvini amici finirono sul rogo, insieme, a migliaia, perché ennesime vittime della paura del “diverso”. Paura non solo di ciò che è estraneo, ma anche di ciò che è proprio e interiore, e, in virtù di ciò, ancora più inaccettabile.

Quando il sole viene inghiottito nel nulla, quando il sonno rallenta i ritmi del quotidiano, quando il buio elimina i contorni definiti e fa precipitare nell’incertezza, gli esseri umani, che si muovono alla ricerca di una verità solo anelabile, hanno, infatti, timore.
Timore del mistero dell’ignoto, della malia del sogno, di quanto, solo nell’invisibile, diventa percepibile.
Timore, soprattutto, della parte oscura che alberga in ciascuno: anche quando la si nega e la si imbriglia, essa scivola via e sfugge, ribelle, come una gatto nero che si muove con destrezza nella notte, indistinguibile nell’assenza di luce finché non apre gli occhi, lacerando le tenebre con due fiamme inquietanti che sembrano provenire da mondi sconosciuti e misteriosi. 
Invece, essi sono fiaccole da seguire, per trovare la strada, la propria strada.

Emma Fenu


lunedì 6 ottobre 2014

La caccia alle streghe. Quando il "diverso" fa paura.



Sguardo che ammalia e seduce.
Movenze feline, rapide e sinuose.
Mani come tele di ragno, capaci di irretire e imprigionare, con un solo gesto.
Bocca che proferisce formule arcane, attraverso le quali governare gli eventi.
A me il potere!”: un urlo che fende, come una lama intrisa di sangue, l’oscurità della notte.
Ecco la Strega, quale, nell’immaginario collettivo, a cavallo di una scopa, percorre itinerari magici, dalle pagine di fiabe e racconti fino alle feste, illuminate da zucche scavate ad arte, di Halloween.
In realtà la Strega è in ogni Donna, fin dalle origini del tempo umano.
Seguite le mie orme e la scia delle mie riflessioni: oltrepasseremo, insieme, millenni di storia nello spazio di poche righe. 
Fidatevi, parola di Strega.

In quasi tutte le culture primitive vige un analogo principio antropologico: il maschio si afferma nell’esercizio della caccia e della guerra, mentre, alla femmina, compete il mondo arcano dell’invisibile e i saperi occulti della chiromanzia e della taumaturgia. 
In principio, la Donna era tutto: fata, sibilla, maga e, soprattutto, strega.
Quest’ultima non prediceva il destino, ma, eroina sulle tracce di Prometeo, agiva su di esso: era sorella e figlia di Circe e Medea, compiva sortilegi e, per proprio sostegno, era capace di chiamare a sé le forze della natura.

Tuttavia, con il passare delle epoche, la strega divenne il simbolo della “donna diversa”, in cui confluì un amalgama di credenze sacre, elaborato in età antica, ma, soprattutto, medievale e rinascimentale, nel quale conversero la Lilith degli Ebrei, la Lamia dei Greci e le Strigi, le Saghe e le Volatiche dei Latini. 
A tali figure mitiche si affiancò, in seguito, la leggenda della brigata notturna, ossia la scorta di Diana, che venne definita triformis, in quanto dea della caccia e dei boschi, della luna e degli incantesimi notturni.

Così Omero descrisse l’incontro fra Odisseo e Circe

Ed io alla casa di Circe andavo; e molto il cuore nell’andare mi batteva. 
Mi fermai sulla porta della dea dalle belle trecce, e là fermo gridai; la dea sentì la mia voce. 
Subito, uscita fuori, aperse le porte splendenti, 
e m’invitava: e io la seguii sconvolto nel cuore. [...] 
Fece il miscuglio per me, in tazza d’oro, perché bevessi,
e il veleno vi infuse, mali meditando nel cuore”. 

La maga dell’isola di Eea , “la dea luminosa” e “dai riccioli ribelli”, è una donna che inficia le facoltà di discernimento grazie alle proprie splendide fattezze. 
L’esule eroe greco uscirà indenne dalle sue spire soltanto grazie ad un intervento divino e, comunque, solo dopo aver trascorso, con i suoi compagni, un lungo anno tra le seduzioni di Circe e delle sue ancelle.
La figura di Odisseo che, dopo essere riuscito a sopravvivere ai naufragi e alla guerra, rimane “sconvolto nel cuore” e trema, al pari di un fanciullo, al cospetto di questa figura bellissima e intrigante, apparentemente disarmata, riporta alla mente altri personaggi maschili, da Adamo in poi, che, sedotti da una donna, si sono resi colpevoli di nefandezze o coperti di ridicolo.

L’erede, seppur ben più sciagurata, della donna- maga, nell’ambito della tradizione della letteratura greca, può essere considerata Medea
I miti sulle sue origini sono due: secondo il primo la maga, figlia del re dei Colchi Eeta e discendente dal dio Sole, sarebbe la nipote di Circe e avrebbe per madre Ecate, la dea malvagia della magia e degli incantesimi. 
Un’altra tradizione la vuole, invece, figlia dell’Oceanina Idia e sorella di Circe. 
In entrambi i casi la relazione di parentela con la maga dell’Odissea è tutt’altro che casuale.
In Euripide, Medea ha un duplice volto: è una donna – vittima, ossia moglie abbandonata, sola, priva di parenti, di protezione e di difesa, ma è, anche e soprattutto, una donna – mostro, ossia forte e scaltra, che arriva a compiere il più turpe dei delitti, quello che nessuna onta subita, nessuna legge umana e divina può giustificare: l’uccisione dei propri figli.

Da qui all’Inquisizione e ai roghi su cui arsero donne e fanciulle, il passo è più breve di quanto sembri.
Gli storici si sono interrogati a lungo su tale fenomeno, una delle più atroci forme di violenza antifemminile mai compiute. 
Sono state individuate, a riguardo, parecchie ragioni: generalmente si ammette che la caccia alle streghe fu il risultato della proiezione, in un universo sovrannaturale, della miseria del tempo e dell’incapacità di opporsi agli assalti della natura. 
La società voleva dei colpevoli e li trovò tra le componenti più anticonformiste e marginali.
Lo storico Delameau, per connotare i terrori delle epoche, usa l’immagine efficace della “città assediata”, intendendo la condizione di paura che suscita la presenza “dell’altro”, del "diverso" da sé: la collettività deve riconoscere le Nemiche, difendere un ordine che dia ragione del disordine.

Io già preveggo da sì tremende deità gran bene venirne a questi cittadini”, dice, infatti, in Eschilo, Atena, riferendosi alle Eumenidi, le figlie della Notte, mentre il corteo degli ateniesi le accompagna, tra le fiaccole, sottoterra.
Le streghe furono, dunque, fondamentalmente, “capri espiatori”. 
Per gli uomini esse furono l’odiosa manifestazione del proprio femminile primitivo, che sussiste a livello inconscio, e, per le donne, esse furono l’oggetto su cui proiettare gli elementi più oscuri e incontrollabili delle muliebri pulsioni.

E oggi, chi sono le Streghe?
Chi sono coloro che si ribellano a convenzioni, che non si riconoscono in modelli stereotipati, che sono emarginate per via del proprio colore di pelle, della propria fede, della propria cultura, del proprio disagio economico? 
Guardatevi intorno. E non temete ciò che vi è ignoto: la diversità ci arricchisce e non la si può consumare neppure fra le vampe del fuoco.

Emma Fenu


domenica 21 settembre 2014

Relazioni interpersonali su Facebook.


Non è certo un mistero, io frequento assiduamente facebook.

Ingenuamente, ritenevo che tutti avessero chiare le dinamiche della comunicazione su un social network.  Tuttavia, un post di alcuni giorni fa, condiviso in bacheca, da un mio contatto (che è anche un'amica reale), mi ha portato a riflettere.

Forse è il caso di fornire il mio contributo alla causa e dire la mia, sulle modalità di relazione interpersonale su facebook. Ovviamente mi riferisco al mio caso specifico, non ho condotto una statistica fra tutti gli utenti.

1. La bacheca di facebook è uno spazio personale in cui condividere idee e ideali, opinioni, riflessioni in merito ad eventi che hanno suscitato la propria attenzione e sui quali si nutre interesse per un confronto intellettuale, civile e costruttivo.

2. Oltre a ciò, facebook non è una sessione dell'ONU, vi si affrontano tematiche più leggere, ironiche, anche decisamente "infantili". Ridere è indice di intelligenza. Ridere di inezie, fra amici complici, denota un atteggiamento verso la vita non superficiale, ma, paradossalmente, molto profondo. 
La consapevolezza, matura, del valore delle piccole cose, di uno scambio di battute fra amici di vecchia data, rende UMANI, ed è ciò di cui si dovrebbe essere più orgogliosi.

3. Arriviamo all'aspetto più dibattuto: le bachece di facebook ospitano, spesso, una carrellata di foto il cui novero fa impallidire la collezione di opere del Louvre. Tutto è oggetto di condivisione, dal piatto di risotto fumante, che attende di essere gustato, ai propri piedi sulla spiaggia, fino all'ultima serata in compagnia. 

C'è chi non ama rendere noti i dettagli della propria vita privata. Scelta, del tutto personale, estremamente condivisibile.

C'è chi non ama essere tartassato da foto di altrui gatti in tutte le pose possibili. Anch'essa scelta rispettabile. Basta usare gli appositi filtri
Nel mio caso specifico, non li uso, perchè i books fotografici di gatti, cani, piedi e visi sorridenti, mi piacciono.

C'è chi ama non pubblicare nulla, ma rendersi edotto, nell'ombra, di ogni evento della vita altrui. Non è una scelta che è in linea con il mio carattere, tuttavia non la considero affatto deprecabile, perchè, se pubblico le mie foto, sono pienamente consapevole che esse sono fruibili da tutti i miei amici. In caso volessi che restassero riservate, opterei per una lista personalizzata, o le osserverei, sul divano di casa, con mio marito.

4. E ora, la fatidica domanda: la bacheca di facebook è uno specchio fedele o deformato, ad arte, della vita reale? Si crea un identità fasulla in cui sembra che si viva in uno stato di perenne grazia?

In taluni casì, sì. E bisogna, da bravi adulti, rassegnarsi al fatto. Del resto, se vado dalla parrucchiera e la signora seduta accanto a me mi decanta le doti dei propri figlioli, non le chiederò certo di confessarmi, in tutta sincerità, se, almeno una volta, abbia pensato di avere generato un rampollo che non rasenti la divina perfezione.

Personalmente, nella mia bacheca scrivo un po' di tutto, dall'esplosione di gioia allo sfogo liberatorio. Posso affermare che è uno spaccato piuttosto affine alla mia vita. Onesto, oserei scrivere. 
Tuttavia, nessuno può pretendere di conoscermi, tramite un social network, come un amico o un parente: confido nell'umiltà e nell'intelligenza dei miei contatti. A volte vi confido troppo, va confessato.

5. Ed infine, una serie di domande, a cui rispondo ricorrendo, meramente, a personale esperienza, solo ad essa.

Gli assidui frequentatori di facebook:
sono capaci di avere una rete di affetti ed amicizie estranee al social network?
Sì, senza problemi. Non riportano danni permanenti.

Sono perennemente privi di ogni altro interesse, se non limitato al settore di cui dissertiamo?
No, di solito si interagisce su facebook mentre si svolgono altre attività: c'è chi fa pausa con un caffè, chi con un paio di like.

Dato che sono su facebook, sono tenuti ad assolvere ogni funzione richiesta, in qualità di impiegati al pubblico servizio, quali: rispondere ad ogni poke e messaggio entro 10 secondi, commentare ogni singolo post di tutti i contatti, condividere le foto della festa del decimo compleanno del figlio dell'amico del vicino di casa, creando un album, così che tutti gli invitati abbiano un ricordo entro una manciata di ore?
No, sono liberi di impiegare il proprio tempo come meglio credono.

Infine, udite udite, per molti facebook, è, oltre a quanto finora elencato, uno strumento corollario del proprio lavoro, sia per divulgazione, ma soprattutto per informazione e condivisione.

Alla fine della fiera, facebook, se lo si vive, o lo si ama o lo si odia.
In entrambi i casi, gentili signori, basta un click.

Buona navigazione!

Emma Fenu





mercoledì 10 settembre 2014

Baci infiniti, fatti d'inchiostro, di colore e di marmo.


Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disiato riso
esser baciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi baciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante
”.
Dante, Inferno, Canto V.



Di baci a lungo si scrisse, tutt’oggi si scrive e sempre si scriverà.
Ci sono parole capaci di farci sognare, immaginare, ricordare. 

Sia che si susseguano in pagine vergate con inchiostro corvino, consunte e ingiallite, perché soggette allo scorrere di troppi cicli lunari, sia in quelle candide e tese come la pelle di un bambino, digitate con Word, esse altro non attendono che di svelarsi.

Siamo travolti in un turbine infinito di frecce scagliate dall’imprevedibile Cupido, e, palpitanti, attraversiamo epopee cavalleresche e episodi biblici, fino a giungere ai romanzi e alle poesie che accennano allo sfiorarsi pudico delle labbra o che si soffermano sulla travolgente passione con cui due esseri si stringono in un bacio senza pause di respiro. 
Proprio grazie a tali letture, si è data vita a creazioni impalpabili di desiderio, ma anche a tangibili, e numerosissime, rappresentazioni artistiche.
Come non ricordare le meravigliose opere di Hayez, di Rodin, di Klimt, di Munch, di Magritte, di Chagall o di Brancusi? E mi limito a citarne solo alcune.

Tuttavia, una è la mia preferita, quella che, durante la mia prima visita al Louvre, mi ha rapito in volo l’anima e ha trascinato tutti i miei sensi in un vortice senza fiato. 
Mi ha baciata.
Si tratta del gruppo marmoreo ritraente Amore e Psiche, scolpito da Antonio Canova
I due amanti sono i protagonisti della celebre storia narrata da Apuleio, ne “Le Metamorfosi”, secondo la quale Psiche (che simboleggia, appunto, l’Anima), mortale di impareggiabile bellezza, si congiunge in matrimonio con Amore, il dio alato, pur non potendo mai scorgerne, alla luce, le fattezze. 
Spinta dalle sorelle, brucianti di invidia, ad infrangere il divieto, la fanciulla dovrà sottoporsi ad una serie di dure prove, prima di ricongiungersi al desiato marito, ottenendo, così, l’immortalità.

Nell’opera di Canova, il dio è colto nell’atto di abbracciare la donna, proteso verso la di lei bocca, impercettibilmente già dischiusa. L'armonica composizione a “incrocio”, detta chiasmo, dei corpi candidi e il cerchio creato dalle braccia di lui, catalizza l’attenzione dell'astante verso il centro, in cui l’attimo, scosso da brividi, che precede il contatto delle labbra, diviene, grazie all’Arte, immortale, imperituro e assoluto.

Il rumore di un bacio non è così forte come quello del cannone, ma la sua eco dura molto più a lungo”.
Oliver Wendell Holmes.


EmmaFenu
edito in Nordic Lifestyle Magazine




martedì 9 settembre 2014

Mille primi baci.


Mille primi baci.

Tu dammi mille baci, e quindi cento,
poi dammene altri mille, e quindi cento,
quindi mille continui, e quindi cento.
E quando poi saranno mille e mille,
nasconderemo il loro vero numero,
che non getti il malocchio l’invidioso
per un numero di baci così alto”.

Da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum,
Dein, cum milia multa fecerimus,
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut ne quis malus invidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum”.
Gaio Valerio Catullo

Siamo nati per essere baciati e per baciare.
L’intimo contatto fra le labbra, infatti, deriva dal gesto, animalesco e primitivo, di masticare il cibo per renderlo più morbido per le gengive rosee dei propri cuccioli e si evolve con la Storia dell’umanità e con la microstoria di ciascuno.

Ti nutro.
Ti mangio.
Ho un bisogno vitale di te.
Sono tua.
Sei mio.

Era ormai notte, ma il muretto su cui eravamo seduti era ancora caldo. Serbava e dispensava i raggi del sole di agosto, come uno scrigno appena dischiuso, che offre a ciascuno i suoi tesori, sfavillanti gioielli d’oro e pietre preziose, perché sa che se ne colmerà di nuovi, al mattino seguente.
Ricordo benissimo le sue scarpe, in tela rossa, con la parte interna, in gomma, consumata dall’attrito con il motore del “sì”. Anche le mie nike nere, con i profili lilla, erano logorate in quel punto preciso.

Il primo bacio.
Non importa se i visi si scontrano maldestramente. 
Non importa se devi levarti l’apparecchio per i denti in una frazione infinitesimale di secondo prima che tutto accada, benedicendo di non aver optato per quello fisso. 
Non importa se devi issarti verso la sua bocca innalzandoti sulle punte, con uno slancio che ti riporta alla memoria la ballerina di carta, protagonista della struggente fiaba di Andersen.
Quell’istante ti rimarrà impresso per sempre e ti farà increspare le labbra, le stesse che, rosse come ciliegie, tremarono, allora, d’imbarazzo, in un sorriso dolce, che saprà farsi spazio anche in un volto solcato da mille rughe e consunto da mille altri baci.

Io credo che la vita sia costellata di “primi baci”. 
Da quello della mamma, un petalo vellutato sulla propria fronte umida e rugosa di bimbo, che poco prima era cullato nelle viscere, a quello del papà, tenero nonostante le guance ruvide di barba, a quelli vibranti di passione, che sigillano, come timbri sulla cera lacca, l’inizio delle nostre storie d’amore, fino a quelli che, seguendo il ritmo ciclico dell’esistenza, restituiamo, nelle vesti di genitori, zii e nonni, a chi è appena venuto alla luce, innocente e già affamato di baci.

Emma Fenu


lunedì 8 settembre 2014

Il mio primo libro. Dalle “Fiabe della Buonanotte” a “Piccole Donne”.


Il mio primo libro.
Dalle “Fiabe della Buonanotte” a “Piccole Donne”.



Ho esitato, davanti al titolo che sovrasta l’articolo che vi accingete a leggere.
Molti sono i primi libri che hanno cosparso di parole i capitoli della nostra esistenza, come molti sono i primi baci che hanno accarezzato la nostra pelle.
Su quale libro urge, dunque, soffermarsi ora?
Vi è un primo che ci venne letto la sera, con la testa che affondava nel cuscino, quando ancora le lettere dell’alfabeto erano figure aliene, schierate, una dopo l’altra, come passeggeri stipati in piccoli vagoni separati da spazi bianchi, in un treno che giungeva a destinazione tramite la voce narrante del papà o della mamma.
Vi è un primo che ricevemmo in regalo, scartato con bramosia e suggellato da una dolce dedica.
Vi è un primo, infine, che leggemmo senza ausilio esterno, vittoriosi e felici, dopo aver avuto accesso al magico codice, i cui simboli, posti in avvicendamento sulla carta, lentamente si disvelavano… e la storia aveva inizio.

Le notti della mia infanzia, profumate di sapone di Marsiglia, sprigionato dalle lenzuola rosa, esordivano con le prime righe tratte da un tomo datato, riportante le Fiabe raccolte dai Fratelli Grimm.
Tuttavia, dopo una manciata di secondi, prendevano forma e colore altre storie, attinte dalla memoria, che mi proiettavano in distese infinite di piante di pomodori, dietro a corse con i piedi nudi, sulla terra fertile e umida, e fra sassaiole che coinvolgevano bande di ragazzini spettinati. Ogni sera mio padre componeva una parte della sua autobiografia, solo per me.


Fu mia madre, invece, a donarmi il mio primo libro, in occasione del mio terzo compleanno. Si trattava della versione cartacea di un cartone animato, all’epoca da me preferito, ossia “Heidi” di Johanna Spyri, che narra le vicissitudini della bimba dalle guance scarlatte, che si struggeva di nostalgia per i suoi monti della Svizzera, costretta dentro le mura di una lussuosa dimora di Francoforte. Alcuni giorni fa ne ho acquistato una versione edita nel 1953, in inglese. Il primo libro non si scorda mai.


Ma la svolta epocale della mia vita di essere contingente, avido di scoperta e di assoluto, fu il primo libro che lessi, agli esordi della scuola primaria, a sei anni appena compiuti: “Piccole Donne” di Louisa May Alcott, un classico intramontabile.
Ho amato le sorelle March, tutte, come sorelle con cui ricordare e confrontarsi, come esseri pensanti, liberi dai vincoli della carta, dotati di pregi e difetti, che osservano lo svolgersi delle medesime vicende tramite il filtro della propria peculiare prospettiva.
Tuttavia, per Jo avevo una predilezione. 
Adoravo quella ragazza dall’indole ribelle e passionale, capace di ideare storie per intrattenere la famiglia, anche quando l’eco della guerra diventa silenzio assordante, anche quando le tenebre gelide della morte calano, inesorabili, e di battersi per il suo sogno, con ostinazione e anticonformismo, fino a diventare una nota scrittrice.

Jo era molto occupata in soffitta, perché le giornate di ottobre cominciavano a farsi fresche e i pomeriggi erano corti. In quelle due o tre ore, durante le quali il sole si attardava con il suo calore sull’alta finestra, Jo, seduta sul vecchio divano, scriveva rapidamente, con le sue carte sparse sopra un baule”.

Desideravo essere Jo, da bambina. Non sono diventata Jo, ma me stessa, la quinta sorella March, come lo sono tutte coloro, Donne, anche se non più “piccole”, che hanno letto con trasporto il libro, apprendendo l’immenso fascino celato nell’intimo segreto delle piccole cose, quelle che vale la pena di assaporare e, tramite la scrittura, condividere.

Emma Fenu


edito in

martedì 26 agosto 2014

Quando si inizia a scrivere...

Quando inizierete a scrivere tutto cambierà, siatene consapevoli. 
Crederete, all'inizio, di avere la situazione in pugno. 
Sarete convinti di tenere ben saldi tutti fili, sia quelli della storia che vi proponete di narrare, sia quelli della vostra vita, che pensate non varierà, se non in pochi dettagli. 
Vi sbagliate. Sarete ostaggi d'amore
Vi sveglierete prima e cederete al sonno più tardi, perchè la Storia, non più di vostra proprietà, non più materia inerte, pretenderà la vostra dedizione
I personaggi di carta danzeranno, fluttuanti, scandendo le vostre giornate al ritmo dei loro passi. Sapranno aspettare, inermi, per i tempi destinati ai vostri cari e al lavoro, ma poi, ebbene sì, scalpiteranno. 
Potreste scordarvi di pranzare o di cospargere di formaggio gli spaghetti. 
Potreste camminare per strada, compiere con le membra i medesimi tragitti, ma, con la mente, essere altrove. 
Potreste annoiarvi terribilmente durante conversazioni banali, nelle quali avevate imparato a simulare un barlume di interesse. 
Potreste ritrovarvi a cogliere inaspettati gesti e a percepire la melodia muta emessa dalle vicissitudini, celate dietro la curva di un sorriso, in chi prima era solo il panettiere o il collega con cui dividete l'ufficio. 
I vostri sensi si affineranno, tutti. Vivrete in un mondo in cui colori, sapori, suoni aromi e consistenze tattili sono all'ennesima potenza. 
Leggerete libri, ma non solo, anche animi
Riterrete di essere cambiati, di non essere più voi stessi. Invece la vostra storia avrà scritto nero su bianco quanto, realmente, siete. 
Buona avventura. Sarà meraviglioso.

Emma Fenu


mercoledì 20 agosto 2014

Per un nuovo piccolo Amico.


Per un nuovo piccolo Amico.

Ogni genio è un gran fanciullo, già per il suo guardare al mondo come a un che di estraneo. Chi nella vita non resta per qualche verso un fanciullo e diventa invece un uomo serio, sobrio, posato e ragionevole, sarà certo un bravo e utile cittadino di questo mondo, ma un genio non sarà mai”.
Arthur Shopenhauer


Caro Bambino,
ti chiamerò così, in modo impersonale, ma già il nome, dopo il suono del quale sorriderai, si sussurra piano, come un pezzo di cioccolato al latte che si scioglie in bocca, lasciando nell’attesa di un altro quadrato, staccato dalla barretta semiaperta, nuda dalla carta argentea.
Mentre sferruzzavo, solerte, la copertina per te, immaginavo una favola che cullasse i tuoi sonni, un susseguirsi di allegri giochi ambientati in un bosco senza tempo e luogo, dove un capriolo, un fungo ed una farfalla sono compagni di fantastiche avventure. Il racconto non prevede un mio finale, spetterà a te sognarlo, ogni volta differente.
Siamo legati, Bambino, non da sigle di dna, da tipologie ematiche, da lineamenti che palesano, nel volto, un’appartenenza sancita dalla scienza. 
Ci uniscono, invece, ricordi, lassi di vita, 22 anni di una Storia che, ora, diventa anche la tua.
Fra pochi mesi arriverai, un fagottino profumato d’ignoto, e la tua voce di cucciolo si unirà, come in una melodia, alle lentiggini e alla bocca da baci di tua madre, alle lacrime che sgorgano dagli occhi di tuo padre, quando non si contiene nell’impeto della risata, ai fuochi d'artificio che salutano il capodanno, guardati, un po' brilli, su un terrazzo, alla mia sedia sempre troppo vicina al fuoco del camino, alla sabbia bianca sulle membra abbronzate, alle tavolate imbandite di cibo e condite di complicità.

Che cosa fanno i bambini tutto il giorno? Fabbricano ricordi”.
Dino Risi

Quando farò ritorno nella mia città natale, “casa” della memoria; quando mi siederò sul divano dei tuoi genitori, in pieno inverno, allungando le gambe in avanti e cercando una coperta con cui scaldarmi, mentre gli altri si muoveranno, accaldati, indossando tenute semiestive; quando rideremo chiassosamente per barzellette, tutte frammentate da espressioni dialettali; quando ricorderemo gli anni della scuola, guardando con un misto di nostalgia ed estraneità vecchie foto; quando per non piangere rideremo ancora e lo stesso, come abbiamo imparato a fare, impavidi; quando penseremo che sarebbe bello se il tempo potesse fermarsi in quell’istante perfetto, in cui noi, se pur sparsi per il mondo, così diversi da ciò che eravamo, ci riconosciamo sempre in un abbraccio…quando tutto questo avverrà di nuovo, stavolta ci sarai anche Tu.
E tutto sarà uguale e nuovo al contempo: ti doneremo amore, ti cingeremo nelle nostre braccia, cercando nei tuoi occhi i fanciulli che siamo stati e che, in fondo, siamo oggi e per sempre, e attenderemo che tu ci insegni a riscoprire il mondo con incantato stupore e magica meraviglia.

I bambini sanno qualcosa che la maggior parte della gente ha dimenticato”.
Keith Haring

Ti aspettiamo, Bambino. Ti immaginiamo, ma sono certa che saprai sorprenderci. Non vediamo l’ora di aggiungere un posto speciale nella casa in cui abita il nostro cuore, in un crocevia attraversato da mille vite, solo per te.

Con amore,
zia Emma













venerdì 15 agosto 2014

"Non dirle solo che è bella, è anche intelligente". Quando il sessismo si traveste.


E’ da tempo che mi imbatto in uno spot contro le discriminazioni di genere, argomento di indubbio interesse e di grande impatto, che, tramite gli schermi, infiamma gli animi anche di noi, fervidi amanti della comunicazione virtuale e mediatica.
Osservate il video con attenzione e spirito critico.


Il fulcro del messaggio veicolato, in questo caso specifico, è quello di crescere le Bambine secondo le proprie potenzialità, non costrette in stereotipi penalizzanti, che sono il frutto marcio di convenzioni sociali, non la gemma profumata di predisposizioni naturali.

Lo scriveva Simone de Beauvoir, già nel 1949, ma, evidentemente, è il caso di ribadirlo ancora.

Eppure fra le immagini del video, così ben orchestrate, io respiro un’aria sessista.

Mi spiego. Concordo con l’invito, rivolto ai genitori, di stimolare le passioni che animano i propri figli, siano essi femmine o maschi, e di non inculcare il culto della bellezza come arma vincente per il conseguimento del successo di una Donna. 
Quindi, non si sottragga il trapano dalle mani di una ragazzina, ma, a rigor di logica, neppure le scarpette da balletto classico dai piedi dell’orgoglio di papà, il quale sognava di assistere alle partite di calcio del suo pargolo.

Ma, attenzione, promuovendo la scienza come somma realizzazione di sè, non si corra il rischio di essere discriminatori nel senso opposto, considerando le bambine che giocano con le bambole, amano i vestitini rosa e, una volta adulte, si iscrivono in facoltà umanistiche, come esseri di serie B, donne obsolete, non al passo con i tempi… troppo “femminili”.

In particolare non condivido quanto, e come, viene enunciato nella fase finale dello spot, dove un’adolescente osserva la locandina di un corso di studi di carattere scientifico, ma, memore dell’educazione ricevuta, abbandona il proposito, stendendosi il rossetto sulle labbra.

Comincio con il sottolineare che l’uso del make up ha ben poca attinenza con i propri interessi culturali e la propria professionalità. Con o senza di esso, si resta Donne, esseri umani, e non sono dimostrate interazioni fra rimmel e capacità di analisi logico scientifica. 

E, infine, vi invito a riflettere sul "motto" con cui si conclude lo spot: “Le nostre parole possono avere un impatto enorme […] incoraggia il suo amore per la scienza e la tecnologia e ispirala a cambiare il mondo”.

Ebbene sì, le parole hanno un impatto enorme, anche quelle degli scrittori, dei poeti, degli sceneggiatori, degli insegnanti di Letteratura, di Storia, di Filosofia, di Storia dell’Arte. Siano essi femmine o maschi, scelgano la scienza o l’approccio umanistico, i nostri figli cambieranno il mondo. Non ostacoliamoli aggiungendo preconcetti nuovi, che sono amari quanto i precedenti.

Desidero che ogni vita umana sia pura e trasparente libertà”.
Simone de Beauvoir

Emma Fenu



giovedì 7 agosto 2014

Il Mare è Vita. Un percorso fra mito e simbologia.

Il Mare è Vita. Un percorso fra mito e simbologia.

In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque”.

Genesi, 1, 1-2


Fin dalle prime pagine dei manuali di Storia della Filosofia, ci troviamo alle prese con l’acqua
La stessa acqua del liquido amniotico, che ci ha nutrito; dei riti di iniziazione (sacramento del Battesimo incluso), che ci ha fatto rinascere nello spirito, purificati; del mare sconfinato, in cui ci siamo sentiti liberi; della celebre teoria di Darwin sull’origine della vita, apprese fin dall’adolescenza; delle cascate maestose, davanti alle quali abbiamo avvertito il sublime della natura e la piccolezza della nostra contingenza.
I filosofi greci individuarono, infatti, proprio nell'acqua, uno degli arché o radici del cosmo, ossia un principio primordiale da cui tutto trae vita e a cui tutto ritorna. Aristotele la pose fra la terra e l’aria, agli antipodi del fuoco.

E quando sei su certe onde, montagne di acqua, vere montagne, non ti importa di nulla. […] E c'è un'armonia perfetta, in quei secondi che sei lì in equilibrio fra il mare e il cielo, quasi fermo mentre scivoli velocissimo tra l'acqua e l'aria, e il fragore”.
Gianrico Carofiglio, Il silenzio dell’onda.

Di circa il 70% di acqua siamo composti anche noi, esseri umani. 
L’acqua, dunque, è vita.
Ma non è solo una deduzione che si deve alla scienza, è un sapere ancestrale, che affonda le sue radici nel mito, quando la speculazione filosofica e fisico-matematica cede il posto al mistero irrisolvibile, a tutto ciò che accadde in un “prima” pangeico di cui non si ha memoria certa, ma intima percezione.
Fra i molteplici miti cosmogonici, uno dei più rinomati è quello, di matrice omerica, che collega l'Oceano, inteso come divinità, alla nascita dell'universo:

Vado a vedere i confini delle terra feconda,
l'Oceano, principio degli Dei, e la madre Teti".
Omero, Iliade, XIV

Aggiungiamo sale, moti ondosi, creature quasi immobili, guizzanti o volteggianti, vegetazione incantevole…e l’acqua diventa mare
Negli abissi della mia fantasia, ad onor del vero, c’è anche uno scrigno segreto, che racchiude un’antica pergamena, una mappa nella quale si indica la posizione di Atlantide. Bisogna trovare la chiave per dischiuderlo.

Il mare si racconta, ma soprattutto, narra di noi, dei nostri segreti, di quanto non sveliamo neppure a noi stessi.
E’ ricco di insidie: le Sirene, appostate fra Scilla e Cariddi, seducono con un canto melodioso, ma per condurre al temuto luogo del non ritorno. In questi frangenti, il mare è emblema dell’inconscio, di ascendenza freudiana, ossia simbolo di morte, in quanto rappresenta la voragine primordiale, insidiata da mostri, che inghiotte, impietosa, il sole al tramonto. Una morte che prelude, però ad una rinascita.

Appressati, Puck. Tu certo ben ricordi quando dalla cima d'un alto scoglio udii una sirena assisa sul dorso di un delfino la quale effondeva nell'aria tanto soavi ed armoniosi accenti che il rude mare s'ingentilì al suo canto, e alcune stelle, impazzite fuori balzaron dalle sfere per ascoltare la melodia dell'equorea fanciulla marina”.
Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate.

Perché, in verità, il mare è ventre materno, che ci protegge e ci tiene lontani da terre sconosciute, ma che ci partorisce una seconda volta, recidendo atavici cordoni ombelicali, per immetterci, oltre il mito dell’infanzia, nella Vita, ossia in un oceano incognito e burrascoso che va solcato, in un viaggio, tutto personale, fra acque e continenti. A volte si precipita negli abissi, ma poi si riemerge, vittoriosi, alla superficie, con i polmoni affamati d’aria e l’anima sazia di avventura.

Il mare non ha paese nemmeno lui, ed è di tutti quelli che lo sanno ascoltare”.
Giovanni Verga, I Malavoglia.

Emma Fenu
edito in Nordic Lifestyle Magazine

Foto by Carme Mura