mercoledì 22 ottobre 2014

Sferruzzare in compagnia sotto i tetti di Copenhagen.


"Un’amicizia tra donne è come un continuo rammendo; è un maglione, anzi tanti maglioni; è il sospiro di sollievo con cui, il primo giorno d’autunno, apriamo l’armadio e loro sono lì, che ci aspettano. 
Sono maglioni di shetland, che pizzicano un po', come amiche dal carattere pungente, non risparmiano critiche taglienti; sono i pull modaioli, che amano stare in vetrina, sotto gli occhi di tutti, amiche energizzanti… 
E poi c’è il cardigan comprato per caso un giorno di pioggia in campagna o in una città straniera. faceva così freddo e non avevamo niente di caldo in valigia. E invece quel maglione comprato per caso diventa il nostro preferito, non sappiamo più farne a meno. E’ il maglione che ci mettiamo quando siamo tristi, quello in cui stiamo più comode. E’ l’amica che chiamiamo quando la vita ci fa sentire al freddo. Quella che sa come consolarci, sempre".
Lisa Corva

Mi sono trasferita a Copenhagen lo scorso Luglio, nel tripudio della meravigliosa estate danese, che non è una morsa afosa, ma l’abbraccio caldo e gioioso di un sole capace di far sfavillare i colori sgargianti dei parchi lussureggianti; delle case variopinte del porto di Nyhavn, proiettate sulle acque dei canali, solcati da imbarcazioni gremite di turisti; dell’infinito susseguirsi di edifici ricoperti di mattoncini e adornati di modanature candide; della “pelle” bronzea, dalle sfumature che rammentano gli abissi marini, che riveste la statua della Sirenetta.
L’autunno arrivò in fretta, e con esso, nell’atmosfera magica, tipicamente nord europea, del Natale incipiente, la voglia di leggere un libro, con, stretta fra le mani, una tisana bollente, e liberi nella mente mille pensieri; la voglia di poggiare i piedi scalzi sopra un tappeto di pelliccia ecologica, mentre, dalla propria finestra, si osserva lo scrosciare della pioggia.
Era giunto il momento ideale per rispolverare i miei amati ferri ed iniziare a dar vita, tramite l’intreccio fatato di fili di lana e seta, a cappelli, sciarpescaldacollo, poncho, guanticopertine, e scaldatazza.
Io sono una donna a cui piace pensare, scrivere, leggere, conoscere, perdersi in fantasie, credere ed elaborare teorie e ideali, emozionarsi, vivere intensamente e introspettivamente.
Sono una donna di cuore e di testa, quindi, ma non sarei completa senza le mie mani, senza il potere creativo che mi donano, dando forma alle immagini che popolano i miei sogni.
E, dopo l’autunno, fu la volta dell’inverno, cadenzato da giornate molto brevi; raggi di sole frequenti quanto avvistamenti UFO; bufere; susseguirsi di fiocchi di neve piccoli, gelati e pungenti, che attraversano il cielo in orizzontale, in balia del vento polare, il quale soffia con veemenza e rievoca alla mente orsi bianchi e distese immacolate di ghiaccio.
Gelido ma ammaliante, l'inverno di Copenhagen. A volte lo si detesta, ma se ne subisce il fascino.
Sferruzzare, allora, non è più stato per me solo un momento intimo, ma è divenuto, una forma di collante sociale, un’occasione d’incontro, in una città cosmopolita, fra donne e ragazze, tutte appassionate di handmade, non solo danesi, ma provenienti da vari paesi: dall’Italia, alla Spagna, alla Russia, al Marocco, al Giappone, al Brasile. Insieme ai fili di lana, si sono intrecciate storie personali, lingue e costumi, esperienze e sogni.
All’interno delle nostre mura domestiche, ma anche di caffetterie o di centri culturali, ci incontriamo, scambiandoci consigli, ciascuna con il proprio metodo, con il proprio retaggio culturale, con la propria voglia di comunicare e condividere non solo schemi e punti, ma anche un ricordo, un progetto o una crostata di marmellata preparata con le proprie mani.
Spesso ci si dedica al proseguimento di un proprio lavoro e, allora, immagini di incarnati ambrati e poncho in alpaca si fondono, in meravigliose osmosi, a quelle di occhi azzurri e maglioni abbelliti da motivi in cui si reiterano renne stilizzate.
A volte, invece, si sferruzza per un progetto comune, come una coperta formata da tantissimi quadrati colorati cuciti fra loro, e ognuno di essi racconta una storia.
Ci sono quadrati con qualche imperfezione, realizzati dalle neofite, ancora alle prese con i primi rudimenti; ci sono quelli con il punto jacquard in toni vivaci, che ci riportano alla mente le distese verdi e il cielo azzurro del Perù; ci sono quelli monocromi, bianchi come le distese di neve e dai punti in rilievo, che evocano i cristalli di ghiaccio; ci sono quelli rosa tenue, confezionati da chi culla nel proprio ventre una bimba; ci sono quelli che ricordano le molteplici e armoniose sfumature delle matrioske.
Ma non immaginateci in esiguo numero, riunite come in una sorta di sabba di streghe della lana o di carboneria delle adepte ai ferri e all’uncinetto!
A Copenhagen la creatività e il lavoro handmade sono, infatti, notevolmente apprezzati a livello sociale: pensate che si insegna a sferruzzare, persino ai maschi, durante gli anni della scuola primaria. Ma, soprattutto visitando i celebri mercatini, che animano la città nelle piazze, in prossimità dei centri commerciali e nel fantastico parco di Tivoli, i chioschetti di Cristania, il ben noto quartiere hippy, e i negozi destinati all’hobbistica, si possono ammirare veri capolavori di fantasia e passione, che fanno parte del guardaroba di ogni danese che si rispetti.
Lo so, in Italia ci si crogiola, da tempo, nel calore estivo, ma qui l'autunno ci invoglia a circondarci di colorati gomitoli.

Arricchiamoci delle nostre reciproche differenze”.
Paul Valéry 

Emma Fenu
pubblicato su Casa e Trend

Ed ora, un assaggio della collezione 2014!



















domenica 12 ottobre 2014

Il fascino del gatto nero. Simbologie e superstizioni.




Se un gatto nero attraversa la strada che state percorrendo, è un indizio.
Vi è un enigma che aspetta di essere svelato e l’impresa che vi attende sfiorerà l’impossibile.
Sappiatelo. Dovrete fare appello al vostro sesto senso e al vostro intuito, e forse non saranno sufficienti.
Perché, se un felino corvino decide di recarsi dal lato opposto di un sentiero, evidentemente si sta recando in un luogo di propria conoscenza.
Si dirige, a passo lesto, verso l’antro di una strega? Vuole aderire ad una setta di maghi? E’ in cerca di un topolino? Ha sentito l’irresistibile richiamo d’amore di una focosa amante?
L’unico modo per saperlo è pedinarlo o porgli direttamente la domanda, nella speranza di una risposta che siate in grado di decifrare.
No, non vi porterà sfortuna, al massimo farete perdere tempo al gatto, qualora, gentilmente, volesse prestarvi ascolto.

La superstizione popolare, che taccia i gatti neri di essere menagrami e strumenti del male, ha origini antichissime e si è tramandata di generazione in generazione.
Andiamo a ritroso. Ancora e ancora.
Giungiamo a tempi arcaici, gravidi di Piramidi, di sfingi, di geroglifici, di templi candidi, di capitelli scolpiti con le foglie d’acanto.
Bruciamo incenso davanti alle effigi di figure femminili connesse alla sacralità attribuita ai gatti, ossia alle dee egizie Bastet, dalle fogge feline, e Iside. Quest'ultima, divenuta, in seguito, Artemide per i Greci e Diana per i romani, venne associata all’oscurità della notte e al nero assoluto e insondabile delle tenebre.
Con l’avvento del Cristianesimo, per scongiurare il proseguo dei culti pagani, i felini furono definiti incarnazione del demonio, in quanto simbolo di ciò che doveva essere condannato. 
I gatti neri, in particolare, assunsero una connotazione maligna, poiché ritenuti alleati delle streghe.
Donne reiette e i loro corvini amici finirono sul rogo, insieme, a migliaia, perché ennesime vittime della paura del “diverso”. Paura non solo di ciò che è estraneo, ma anche di ciò che è proprio e interiore, e, in virtù di ciò, ancora più inaccettabile.

Quando il sole viene inghiottito nel nulla, quando il sonno rallenta i ritmi del quotidiano, quando il buio elimina i contorni definiti e fa precipitare nell’incertezza, gli esseri umani, che si muovono alla ricerca di una verità solo anelabile, hanno, infatti, timore.
Timore del mistero dell’ignoto, della malia del sogno, di quanto, solo nell’invisibile, diventa percepibile.
Timore, soprattutto, della parte oscura che alberga in ciascuno: anche quando la si nega e la si imbriglia, essa scivola via e sfugge, ribelle, come una gatto nero che si muove con destrezza nella notte, indistinguibile nell’assenza di luce finché non apre gli occhi, lacerando le tenebre con due fiamme inquietanti che sembrano provenire da mondi sconosciuti e misteriosi. 
Invece, essi sono fiaccole da seguire, per trovare la strada, la propria strada.

Emma Fenu


lunedì 6 ottobre 2014

La caccia alle streghe. Quando il "diverso" fa paura.



Sguardo che ammalia e seduce.
Movenze feline, rapide e sinuose.
Mani come tele di ragno, capaci di irretire e imprigionare, con un solo gesto.
Bocca che proferisce formule arcane, attraverso le quali governare gli eventi.
A me il potere!”: un urlo che fende, come una lama intrisa di sangue, l’oscurità della notte.
Ecco la Strega, quale, nell’immaginario collettivo, a cavallo di una scopa, percorre itinerari magici, dalle pagine di fiabe e racconti fino alle feste, illuminate da zucche scavate ad arte, di Halloween.
In realtà la Strega è in ogni Donna, fin dalle origini del tempo umano.
Seguite le mie orme e la scia delle mie riflessioni: oltrepasseremo, insieme, millenni di storia nello spazio di poche righe. 
Fidatevi, parola di Strega.

In quasi tutte le culture primitive vige un analogo principio antropologico: il maschio si afferma nell’esercizio della caccia e della guerra, mentre, alla femmina, compete il mondo arcano dell’invisibile e i saperi occulti della chiromanzia e della taumaturgia. 
In principio, la Donna era tutto: fata, sibilla, maga e, soprattutto, strega.
Quest’ultima non prediceva il destino, ma, eroina sulle tracce di Prometeo, agiva su di esso: era sorella e figlia di Circe e Medea, compiva sortilegi e, per proprio sostegno, era capace di chiamare a sé le forze della natura.

Tuttavia, con il passare delle epoche, la strega divenne il simbolo della “donna diversa”, in cui confluì un amalgama di credenze sacre, elaborato in età antica, ma, soprattutto, medievale e rinascimentale, nel quale conversero la Lilith degli Ebrei, la Lamia dei Greci e le Strigi, le Saghe e le Volatiche dei Latini. 
A tali figure mitiche si affiancò, in seguito, la leggenda della brigata notturna, ossia la scorta di Diana, che venne definita triformis, in quanto dea della caccia e dei boschi, della luna e degli incantesimi notturni.

Così Omero descrisse l’incontro fra Odisseo e Circe

Ed io alla casa di Circe andavo; e molto il cuore nell’andare mi batteva. 
Mi fermai sulla porta della dea dalle belle trecce, e là fermo gridai; la dea sentì la mia voce. 
Subito, uscita fuori, aperse le porte splendenti, 
e m’invitava: e io la seguii sconvolto nel cuore. [...] 
Fece il miscuglio per me, in tazza d’oro, perché bevessi,
e il veleno vi infuse, mali meditando nel cuore”. 

La maga dell’isola di Eea , “la dea luminosa” e “dai riccioli ribelli”, è una donna che inficia le facoltà di discernimento grazie alle proprie splendide fattezze. 
L’esule eroe greco uscirà indenne dalle sue spire soltanto grazie ad un intervento divino e, comunque, solo dopo aver trascorso, con i suoi compagni, un lungo anno tra le seduzioni di Circe e delle sue ancelle.
La figura di Odisseo che, dopo essere riuscito a sopravvivere ai naufragi e alla guerra, rimane “sconvolto nel cuore” e trema, al pari di un fanciullo, al cospetto di questa figura bellissima e intrigante, apparentemente disarmata, riporta alla mente altri personaggi maschili, da Adamo in poi, che, sedotti da una donna, si sono resi colpevoli di nefandezze o coperti di ridicolo.

L’erede, seppur ben più sciagurata, della donna- maga, nell’ambito della tradizione della letteratura greca, può essere considerata Medea
I miti sulle sue origini sono due: secondo il primo la maga, figlia del re dei Colchi Eeta e discendente dal dio Sole, sarebbe la nipote di Circe e avrebbe per madre Ecate, la dea malvagia della magia e degli incantesimi. 
Un’altra tradizione la vuole, invece, figlia dell’Oceanina Idia e sorella di Circe. 
In entrambi i casi la relazione di parentela con la maga dell’Odissea è tutt’altro che casuale.
In Euripide, Medea ha un duplice volto: è una donna – vittima, ossia moglie abbandonata, sola, priva di parenti, di protezione e di difesa, ma è, anche e soprattutto, una donna – mostro, ossia forte e scaltra, che arriva a compiere il più turpe dei delitti, quello che nessuna onta subita, nessuna legge umana e divina può giustificare: l’uccisione dei propri figli.

Da qui all’Inquisizione e ai roghi su cui arsero donne e fanciulle, il passo è più breve di quanto sembri.
Gli storici si sono interrogati a lungo su tale fenomeno, una delle più atroci forme di violenza antifemminile mai compiute. 
Sono state individuate, a riguardo, parecchie ragioni: generalmente si ammette che la caccia alle streghe fu il risultato della proiezione, in un universo sovrannaturale, della miseria del tempo e dell’incapacità di opporsi agli assalti della natura. 
La società voleva dei colpevoli e li trovò tra le componenti più anticonformiste e marginali.
Lo storico Delameau, per connotare i terrori delle epoche, usa l’immagine efficace della “città assediata”, intendendo la condizione di paura che suscita la presenza “dell’altro”, del "diverso" da sé: la collettività deve riconoscere le Nemiche, difendere un ordine che dia ragione del disordine.

Io già preveggo da sì tremende deità gran bene venirne a questi cittadini”, dice, infatti, in Eschilo, Atena, riferendosi alle Eumenidi, le figlie della Notte, mentre il corteo degli ateniesi le accompagna, tra le fiaccole, sottoterra.
Le streghe furono, dunque, fondamentalmente, “capri espiatori”. 
Per gli uomini esse furono l’odiosa manifestazione del proprio femminile primitivo, che sussiste a livello inconscio, e, per le donne, esse furono l’oggetto su cui proiettare gli elementi più oscuri e incontrollabili delle muliebri pulsioni.

E oggi, chi sono le Streghe?
Chi sono coloro che si ribellano a convenzioni, che non si riconoscono in modelli stereotipati, che sono emarginate per via del proprio colore di pelle, della propria fede, della propria cultura, del proprio disagio economico? 
Guardatevi intorno. E non temete ciò che vi è ignoto: la diversità ci arricchisce e non la si può consumare neppure fra le vampe del fuoco.

Emma Fenu