lunedì 11 maggio 2015

"Casa di Bambola" di Henrik Ibsen.


Fu durante una domenica trascorsa ad Århus, cittadina danese che si affaccia sulla costa orientale dello Jutland, che, seduta davanti ad una pregevole casa di bambole, esposta nel locale al primo piano del Kvindemuseet, uno dei vari Musei dedicati alle Donne presenti nella nazione, cominciai a riflettere su quanto, ora, mi accingo a scrivere. 
Osservavo un mondo in miniatura, dove tutto è perfetto. 
Un microcosmo volutamente lezioso, che ci riporta all’infanzia e ai racconti della nonna, che profuma di naftalina, di cipria e di rose recise, che ha il sapore di biscotti, di marmellata e di baci casti. 
Le amo, le case delle bambole. 
Colleziono mobilie minute e suppellettili delicate, che, recentemente, acquisto a Copenhagen e, soprattutto, a Malmö, in Svezia. 
Le amo perché sono immobili spazi nei quali confinare sogni infiniti
Ma non sono una bambola, non recito un ruolo che mi è imposto da una società fondata sull’ipocrisia e sul maschilismo. 
Le mie membra sono di carne, non di porcellana, e i loro movimenti sono dettati dal mio cervello, non dall’altrui volere; i miei occhi possono spingersi oltre il limite di quattro mura abbellite da acqueforti; la mia bocca non è sigillata in un roseo sorriso ma è veicolo di parole, emozioni, pensieri. Sono viva. 
Per questo comprendo la tortura della prigionia imposta a Nora, la protagonista del celebre testo teatrale scritto, nel 1879, dal norvegese Henrik Ibsen
Un’opera, "Casa di Bambola", dall’epilogo “estremo”, che fece scandalo, perché precorse i tempi del femminismo, perché mise in discussione la di allora istituzione del matrimonio e il ruolo che spettava ad una Donna, ossia quello di moglie e madre non solo per vocazione, ma per implicita condanna a non essere autonoma. 
"Ma la nostra casa non è mai stata altro che una stanza da gioco. Qui sono stata la tua moglie-bambola, come ero stata la figlia-bambola di mio padre. E i bambini sono stati le bambole mie".

Emma Fenu

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