Il mio primo libro.
Dalle “Fiabe della Buonanotte” a “Piccole Donne”.
Ho esitato, davanti al titolo che sovrasta l’articolo che vi accingete a leggere.
Molti sono i primi libri che hanno cosparso di parole i capitoli della nostra esistenza, come molti sono i primi baci che hanno accarezzato la nostra pelle.
Su quale libro urge, dunque, soffermarsi ora?
Vi è un primo che ci venne letto la sera, con la testa che affondava nel cuscino, quando ancora le lettere dell’alfabeto erano figure aliene, schierate, una dopo l’altra, come passeggeri stipati in piccoli vagoni separati da spazi bianchi, in un treno che giungeva a destinazione tramite la voce narrante del papà o della mamma.
Vi è un primo che ricevemmo in regalo, scartato con bramosia e suggellato da una dolce dedica.
Vi è un primo, infine, che leggemmo senza ausilio esterno, vittoriosi e felici, dopo aver avuto accesso al magico codice, i cui simboli, posti in avvicendamento sulla carta, lentamente si disvelavano… e la storia aveva inizio.
Le notti della mia infanzia, profumate di sapone di Marsiglia, sprigionato dalle lenzuola rosa, esordivano con le prime righe tratte da un tomo datato, riportante le Fiabe raccolte dai Fratelli Grimm.
Tuttavia, dopo una manciata di secondi, prendevano forma e colore altre storie, attinte dalla memoria, che mi proiettavano in distese infinite di piante di pomodori, dietro a corse con i piedi nudi, sulla terra fertile e umida, e fra sassaiole che coinvolgevano bande di ragazzini spettinati. Ogni sera mio padre componeva una parte della sua autobiografia, solo per me.
Fu mia madre, invece, a donarmi il mio primo libro, in occasione del mio terzo compleanno. Si trattava della versione cartacea di un cartone animato, all’epoca da me preferito, ossia “Heidi” di Johanna Spyri, che narra le vicissitudini della bimba dalle guance scarlatte, che si struggeva di nostalgia per i suoi monti della Svizzera, costretta dentro le mura di una lussuosa dimora di Francoforte. Alcuni giorni fa ne ho acquistato una versione edita nel 1953, in inglese. Il primo libro non si scorda mai.
Ma la svolta epocale della mia vita di essere contingente, avido di scoperta e di assoluto, fu il primo libro che lessi, agli esordi della scuola primaria, a sei anni appena compiuti: “Piccole Donne” di Louisa May Alcott, un classico intramontabile.
Ho amato le sorelle March, tutte, come sorelle con cui ricordare e confrontarsi, come esseri pensanti, liberi dai vincoli della carta, dotati di pregi e difetti, che osservano lo svolgersi delle medesime vicende tramite il filtro della propria peculiare prospettiva.
Tuttavia, per Jo avevo una predilezione.
Adoravo quella ragazza dall’indole ribelle e passionale, capace di ideare storie per intrattenere la famiglia, anche quando l’eco della guerra diventa silenzio assordante, anche quando le tenebre gelide della morte calano, inesorabili, e di battersi per il suo sogno, con ostinazione e anticonformismo, fino a diventare una nota scrittrice.
“Jo era molto occupata in soffitta, perché le giornate di ottobre cominciavano a farsi fresche e i pomeriggi erano corti. In quelle due o tre ore, durante le quali il sole si attardava con il suo calore sull’alta finestra, Jo, seduta sul vecchio divano, scriveva rapidamente, con le sue carte sparse sopra un baule”.
Desideravo essere Jo, da bambina. Non sono diventata Jo, ma me stessa, la quinta sorella March, come lo sono tutte coloro, Donne, anche se non più “piccole”, che hanno letto con trasporto il libro, apprendendo l’immenso fascino celato nell’intimo segreto delle piccole cose, quelle che vale la pena di assaporare e, tramite la scrittura, condividere.
Emma Fenu
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