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lunedì 11 maggio 2015

"Casa di Bambola" di Henrik Ibsen.


Fu durante una domenica trascorsa ad Århus, cittadina danese che si affaccia sulla costa orientale dello Jutland, che, seduta davanti ad una pregevole casa di bambole, esposta nel locale al primo piano del Kvindemuseet, uno dei vari Musei dedicati alle Donne presenti nella nazione, cominciai a riflettere su quanto, ora, mi accingo a scrivere. 
Osservavo un mondo in miniatura, dove tutto è perfetto. 
Un microcosmo volutamente lezioso, che ci riporta all’infanzia e ai racconti della nonna, che profuma di naftalina, di cipria e di rose recise, che ha il sapore di biscotti, di marmellata e di baci casti. 
Le amo, le case delle bambole. 
Colleziono mobilie minute e suppellettili delicate, che, recentemente, acquisto a Copenhagen e, soprattutto, a Malmö, in Svezia. 
Le amo perché sono immobili spazi nei quali confinare sogni infiniti
Ma non sono una bambola, non recito un ruolo che mi è imposto da una società fondata sull’ipocrisia e sul maschilismo. 
Le mie membra sono di carne, non di porcellana, e i loro movimenti sono dettati dal mio cervello, non dall’altrui volere; i miei occhi possono spingersi oltre il limite di quattro mura abbellite da acqueforti; la mia bocca non è sigillata in un roseo sorriso ma è veicolo di parole, emozioni, pensieri. Sono viva. 
Per questo comprendo la tortura della prigionia imposta a Nora, la protagonista del celebre testo teatrale scritto, nel 1879, dal norvegese Henrik Ibsen
Un’opera, "Casa di Bambola", dall’epilogo “estremo”, che fece scandalo, perché precorse i tempi del femminismo, perché mise in discussione la di allora istituzione del matrimonio e il ruolo che spettava ad una Donna, ossia quello di moglie e madre non solo per vocazione, ma per implicita condanna a non essere autonoma. 
"Ma la nostra casa non è mai stata altro che una stanza da gioco. Qui sono stata la tua moglie-bambola, come ero stata la figlia-bambola di mio padre. E i bambini sono stati le bambole mie".

Emma Fenu

martedì 7 aprile 2015

QUANDO IL SOLE DIVENTA NERO.


QUANDO IL SOLE DIVENTA NERO.

La danza abbia inizio. 
Sole e Luna in un passo a due, come due amanti in un minuetto di corteggiamento, che culmina in un bacio, in una stretta appassionata, in una fusione totale.
O forse si tratta di una lotta, uno scontro atavico fra femminile e maschile e fra buio e luce, che si conclude in una pace perfetta, senza sangue e senza dolore, o in un abbraccio di morte, come per Tancredi e Clorinda.
O forse, ancora, un dio o un demone, liberato dalle catene della prigionia, si lancia contro l’astro, tentando di divorarlo con un morso bramoso di vendetta.
L’eclissi, dunque, dipinge il suo nero con l’inchiostro della magia, intingendo la penna nel mito e nella leggenda.

Non schivar, non parar, non pur ritrarsi
voglion costor, ne qui destrezza ha parte.
Non danno i colpi or finti, or pieni, or scarsi:
toglie l'ombra e'l furor l'uso de l'arte.
Odi le spade orribilmente urtarsi
a mezzo il ferro; e'l piè d'orma non parte:
sempre il piè fermo e la man sempre in moto,
né scende taglio in van, ne punta a voto”.
Torquato Tasso, Gerusalemme Liberata, Canto XII

Tale rottura del rassicurante ordine cosmico, per alcuni popoli, era un segno nefasto, come per gli antichi Greci, per altri un momento sacro, come per i Navajo.
In particolare, i nostri amati Vichinghi immaginavano che la Dea Sole (nella cultura nordica è una divinità femminea) ogni giorno attraversasse la volta celeste guidando un carro trainato da due destrieri. Tuttavia, la sua corsa non era immune dal pericolo poiché, combattendo in eterno una battaglia con il lupo Sköll, talvolta veniva braccata e poi raggiunta. In ragione di ciò, per scacciare la bestia feroce, gli ardimentosi guerrieri agitavano verso l'alto, con fare minaccioso, spade e lance e, una volta terminata l’eclissi, salutavano il ritorno della luce con urla ebbre di vittoria.

E oggi, cosa ci racconta il Sole nero? Ci offre un affascinante spettacolo della natura, per ricordarci che ne siamo parte e che siamo ordine e Kaos, luce e ombra, stirpe numerosa di un universo fecondo che invita alla pace fra uomini e dentro di essi.

L’eclisse di sole è un fenomeno temporaneo. L’eclissi della mente, un fenomeno che non finisce mai”.
Mieczysław Kozłowski

Emma Fenu

venerdì 13 marzo 2015

Il fascino di un'eterna Primavera.




"Primavera dintorno

brilla nell'aria, e per li campi esulta,

sì ch'a mirarla intenerisce il core".

Giacomo Leopardi

Ci trovammo una di fronte all'altra. Fu il nostro primo di tanti incontri.
Io avevo dodici anni e la primavera della vita mi scorreva impetuosa nelle vene, regalandomi tre centimetri di altezza in più, nel corso di un'estate.
Lei vive nel suo tempo baciato dall'eternità e in uno spazio che pare circoscritto fra assi di legno intarsiato, ma è, invece, infinito, con l'orizzonte che abbraccia ogni astante. 
Potevo percepire l'aroma intenso delle arance e dei fiori umidi di rugiada. Una ragazzina che ha appena concluso la seconda media ignora i cardini della filosofia neoplatonica e non può elencare che poche note storiche sulla famiglia De Medici. 
Eppure, il messaggio che invita ad una perenne rinascita mi investì, come tutti gli altri accanto a me, disposti davanti al celeberrimo quadro dipinto da Sandro Botticelli, con i piedi sul pavimento degli Uffizi e il cuore rapito, che si librava a mezz'aria. 
Travolti da una danza di figure, tratte dai versi del Mito, non potevamo non cogliere l'invito ad abbracciare un amore puro ed assoluto, che trascende il contingente scorrere del tempo e delle stagioni, e conduce, seguendo una dolce melodia, in una dimensione incantata, dove la primavera non ha mai fine.

"Potranno recidere tutti i fiori, ma non potranno fermare la primavera".

Pablo Neruda

Emma Fenu

lunedì 9 marzo 2015

Rinascere sotto la luce della Luna.




La nascita non è mai sicura come la morte. E questa la ragione per cui nascere non basta. È per rinascere che siamo nati”.
Pablo Neruda

Una luce nel cielo color ebano.
Una falce che fende l'oscurità fino a ritagliarsi uno spazio per mostrarsi nella sua completezza e rotondità. Ma il buio riprende a mordere e divorare, silente, fino a stendere il suo velo arcano su ogni parte lucente, vittorioso messaggero di morte. 
Ma è una fine provvisoria, un periodico spegnersi, per poi rinascere. Ancora e ancora, senza cenno di resa.
La Luna è Donna: nel lutto, segnato dai rivoli di sangue, si rigenera, per essere non solo esplosione di vita, ma ventre fecondo. 
Entrambe, infatti, hanno un ciclo di pari durata, ossia di 28 giorni. La stessa etimologia della parola mestruazione rende ancora più palese tale ancestrale legame, le cui origini si perdono nella notte dei tempi: essa deriva dal latino "mensis", il quale, a sua volta, è in rapporto di discendenza con il termine greco "Mene", ossia l’altro appellativo di Selene.
Nella mitologia greco-romana l’astro notturno è stato associato a tre distinte divinità, che ne personificano la triplice manifestazione: Luna piena, Luna crescente e Luna nuova. 
Per prima si staglia sul nero della notte la meravigliosa Selene, il cui nome proviene da "sélas", ossia splendore. Essa è l'immagine della Grande Madre che partorisce, nutre stillando latte dai suoi seni turgidi, protegge ed accoglie nelle sue calde viscere.

"Le stelle intorno alla bella luna
celano il volto luminoso
quando, al suo colmo, più risplende
sopra la terra".
Saffo

Alla sferica pienezza segue Artemide, la falce di Luna, che è simbolo di rinascita e di resurrezione. Secondo il racconto del mito, la dea è una fanciulla dall'animo selvaggio, regina dei boschi e dedita alla caccia, fiera della propria verginità, ma, paradossalmente, anche protettrice delle partorienti.

"Falce di luna. Lo si dice della luna nelle prime fasi della sua periodica crescita, quando è troppo luminosa per i ladri e troppo buia per gli amanti".
Ambrose Bierce

E, infine, giunge Ecate, la Luna nera che, poiché in congiunzione con il Sole, risulta eclissata: è la figura più ambigua, poichè sembra preludere alla morte, proprio mentre, invece, accumula forza per l'imminente rinascita. 
La Luna nera è la Donna del mistero, che sfugge a categorizzazioni, che esercita arcani poteri in virtù dei quali è odiata, temuta o onorata. E' il simbolo delle streghe, delle sirene, delle creature muliebri ribelli ai dettami imposti dalle norme sociali, di matrice maschile.

La luna cala per ridar forza agli elementi. E’ questo dunque il grande mistero".
Sant'Ambrogio

Ma non solo, la Luna nera è in ognuno di noi, che si dibatte nel buio della coscienza, cercando luce nei meandri oscuri e senza ragione che ci appartengono. Non temeteli, in essi, come in un terreno nero gelato dall'inverno, si gettano i semi dei nuovi fiori, che sbocceranno agli esordi della primavera. Oggi, come miliardi di anni fa.

"La primavera è sempre, a tutti, una rinascita".
Theodore Francis Powys

Emma Fenu



mercoledì 11 febbraio 2015

La persona è una maschera.


La Persona è una Maschera.

"Mi metterò una maschera
da imperatore,
avrò un impero
per un paio d'ore:
per voler mio dovranno
levarsi la maschera
quelli che la portano
ogni giorno dell'anno...
E sarà il carnevale
più divertente
veder la faccia vera
di certa gente".
Gianni Rodari

"Chi sono io?".
"Una persona".
E l’articolo potrebbe concludersi qui, adesso, se non venisse in soccorso l’etimologia.
Gli antichi latini, infatti, denominarono “persona”, appunto, la maschera di legno o terracotta portata dagli attori, intesa non tanto quale occultamento delle reali fattezze, quanto come un mezzo per favorire l’immediata identificazione dei personaggi sulla scena e come una cassa di risonanza che permetteva alla voce di essere udita anche a lunga distanza.
Gustav Jung, celebre psichiatra svizzero dello scorso secolo, ben consapevole della storia del termine ora in analisi, definì “persona” il ruolo che ogni essere umano svolge, nel mondo esterno, per rispondere a precise aspettative sociali.
Ma cosa accade quando un individuo diventa troppo “persona”, ossia si identifica eccessivamente con la maschera che indossa? 
Qui interviene, oltre alla psicanalisi, ancora una volta, il teatro per renderci chiaro e fruibile il messaggio: secondo Pirandello la società moderna porta ad un’alienazione dell’individuo, che si sente defraudato della propria identità in quanto costretto a ricoprire un ruolo stereotipato.
Per il novecentesco autore italiano, che abbiamo conosciuto fin dai banchi di scuola, paradossalmente, è la scena ad essere il luogo della verità, in quanto la maschera teatrale fa cadere quella sociale.

Seguitemi in un salto nel tempo.
Corre l’anno 1921
Avete indosso il vostro miglior vestito e vi accingete a varcare la soglia del teatro. 
Le quinte sono svelate… dove è la scena? Smarrimento. Indignazione.
Ed ecco comparire sei personaggi senza nome, identificati da un mero ruolo, che invocano il capocomico per avere una parte, che spetterà, invece, ad attori professionisti.
Nessuno degli astanti è pronto, tutti sono straniati.

Ma oggi, tempo di nickname e di identità virtuali, siamo consapevoli più che mai di vivere nell’apparenza e che la maschera non è solo attributo degli attori o orpello delle feste carnevalesche. 
E’, dunque, un filtro che ci imbriglia in ciò che non siamo o ci permette, a nostra scelta, di essere e dire senza timore di giudizio?
Oscar Wilde sentenziò: “Ogni uomo mente, ma dategli una maschera e vi dirà la verità”.
Voi cosa ne pensate? 
Scopritelo guardandovi allo specchio, la sera, prima che il sonno vi accolga. Nell’oscurità chiedetevi: "Chi sono io?".

Emma Fenu
tratto da 

lunedì 12 gennaio 2015

Le infinite domande di Jostein Gaarder. Quando la Filosofia è una Favola.


“Il tempo ci rende adulti. E il tempo fa sì che antichi templi crollino e che isole ancora più antiche sprofondino nel mare. […] Ma qualcosa, dentro di me, sa che c'è ancora un Jolly in giro per il mondo. Sarà lui a far sì che il mondo non si addormenti. In qualsiasi momento, in qualsiasi luogo, potrebbe spuntare un minuscolo giullare coperto di campanelli”.
L’enigma del Solitario 

Se, oggi, voglio assaporare l’atmosfera del nord, mi basta dischiudere le mie finestre che, in queste mattine di inverno, si rigano di arabeschi di gelo, e ammirare i tetti innevati di Copenhagen, sormontanti dall’ombra scura di tronchi neri e maestosi, che si stagliano su un cielo di luce bianca. Dopo pochi minuti, però, il buon senso mi porta a richiudere le ante, per il troppo freddo e per il vento polare che fa volare i miei carteggi come fiocchi di neve in balia di una bufera.
Tuttavia, lo spettacolo non finisce: attraverso i vetri, ormai disappannati, rivolgendo lo sguardo verso il basso, scorgo orme umane e strisce di ruote di bici che, istante dopo istante, creano un reticolato fitto di direzioni di viaggio. Ognuno per la sua strada, con i suoi pensieri, con le sue domande.
Ma se pensate alla Scandinavia soltanto come la terra del gelo, delle coltri immacolate, delle slitte tintinnanti di un popolo di Babbi Natale e dei boccali di birra che si scontrano in brindisi dal suono gutturale…vi sbagliate.
Questo, infatti, è anche il luogo magico delle fiabe, dove gli eredi di Andersen non hanno mai perso l’innocenza del sogno e la caparbietà di cimentarsi con interrogativi ancestrali.

Sono già partita per il Nord, mille volte, prima di mettervi fisicamente piede, due anni orsono. Ho viaggiato in compagnia di Jostein Gaarder, scrittore norvegese, precisamente di Oslo, a cui si devono svariate opere, la più celebre delle quali è “Il mondo di Sofia”.
Mi è stato necessario solo stringere un suo libro fra le mani e tenere l’orecchio teso, nel silenzio del crepuscolo, per captare l’eco delle infinite domande.
Se volete immergervi in questa storia, seguite il mio esempio, ovunque voi siate.
Ascoltate.
Chi siamo?
Da dove veniamo?
Dove andiamo?”.
Alcuni di voi avranno già sprigionato innumerevoli riflessioni, saettanti come zoccoli di renne sul bosco del pensiero; altri avranno deglutito, perplessi, come chi si arrischia ad affrontare a remi il mar Baltico; altri vorranno un sorso di gløgg, per iniziare a ragionare.
Eppure avete già compiuto il grande passo. Avete scoperto il piacere della Filosofia, figlia prediletta dello stupore, che si nutre di domande e non si sazia di risposte.

Una risposta non merita mai un inchino: per quanto intelligente e giusta ci possa sembrare, non dobbiamo mai inchinarci a una risposta. Chi si inchina si piega. [...] Non devi mai piegarti davanti a una risposta. [...] Una risposta è il tratto di strada che ti sei lasciato alle spalle. Solo una domanda può puntare oltre”.
C’è nessuno?

Forse, e lo ignorate ancora, siete i protagonisti di un libro e “qualcuno” scrive le vostre storie o forse “qualcuno” cerca di mettersi in comunicazione con voi, da fuori o da dentro il vostro universo. 
Lo scoprirete. 
Sappiate, finora, che, se formulate bene la domanda: “C’è nessuno?”, potreste scorgere un bambino appeso ad un albero di mele, a testa in giù, con cui dialogare sul senso della vita.

Siamo l'enigma che nessuno decifra. Siamo la favola racchiusa nella propria immagine. Siamo ciò che continua ad andare avanti senza arrivare mai a capire”.
Maya

Emma Fenu

lunedì 8 dicembre 2014

E' sempre il momento di intonare un Canto di Natale.



Io onorerò sempre Natale nel cuore, io ne serberò il culto tutto l'anno. Vivrò nel passato, nel presente e nell'avvenire”.

I romanzi di Charles Dickens sono magia letteraria. Incantano e rapiscono fin dai memorabili incipit, conducendo il lettore in un mondo talmente reale da apparire grottesco, come in una caricatura deformante, dove la denuncia sociale non è sterile acredine, ma invito alla riflessione.
Ma non solo, le opere dello scrittore ottocentesco, divertono, nel senso etimologico del termine, ossia portano altrove, in una manciata di righe.

"Marley, prima di tutto, era morto. Niente dubbio su questo. Il registro mortuario portava le firme del prete, del chierico...". 
Ed ecco qua, il libro è appena iniziato e io sono già proiettata ne "Il Canto di Natale"!
Mi sdegno per la smorfia sprezzante dipinta sul volto di Scrooge, tendo la mano per accarezzare il faccino tenero di Tim, tremo al cospetto dei tre spettri e mi sciolgo in calde lacrime di commozione davanti ad una tavola imbandita a festa, dove c'è sempre posto per un ospite inatteso.

Tuttavia, non vi racconterò la storia narrata da Dickens nella sua celebre opera. E’ un libro talmente intenso e coinvolgente, nella sua brevità e scorrevolezza, che merita di essere riletto, ancora e ancora, ogni Dicembre. Nessuna recensione, infatti, potrebbe rendergli il giusto tributo.

Vi scriverò, invece, di destino, e della possibilità di cambiarlo, grazie alla volontà di sapersi mettere in discussione; di liberarsi di inutili zavorre, per riappropriarsi di inestimabili tesori sconsideratamente accantonati; di accogliere l’alba di un nuovo giorno con un sorriso che si riflette sui visi di chi ci è accanto, anche soltanto per pochi passi, lungo la strada che ci aspetta. 
A Natale siamo tutti più buoni, si suol dire. 
Ad essere onesti, si è più recettivi, poiché più propensi a fermarsi, rallentando il ritmo convulso della quotidianità, per assaporare un ricordo che, talvolta, lascia un retrogusto amaro, o per pregustare una fetta di futuro, lungo la scia di un sogno. 
Non diventiamo altruisti nello spazio di pochi giorni, scanditi da neve e luci intermittenti, per poi spegnerci nell’indifferenza e nell’egoismo, a festa finita. 
Cerchiamo solo di placare il borbottio della coscienza, che pare trovare solenne udienza solo se di rosso vestita. 
Tuttavia, se le secche di Gennaio ci ritroveranno tali e quali eravamo al cadere delle prime foglie brunite, non avremo saputo ascoltare abbastanza il tintinnio delle slitte trainate da renne. Saremo rimasti sordi e il destino ci osserverà beffardo, nutrendo il nostro fallimento con briciole di panettone stantio.
Eppure ci spetta l'onore della scelta: basta ritagliare il nostro tempo per i genitori anziani o per i figli piccini; indignarsi per le ingiustizie, senza esserne omertosi complici; difendere diritti, invece che sottrarli, combattendo una guerra fra poveri; concedere un sorriso, prima di pretenderlo.
Sono le piccole cose, messe in fila come i vagoni di un trenino fiammante scartato ai piedi dell’albero, che cambiano il futuro del mondo, se siamo memori del passato e solerti allievi del presente. 
Questa è la mia favola, da scandire piano, con dolcezza, la notte della vigilia. E ogni favola è possibile, basta crederci.

Risero alcuni di quel mutamento, ma egli li lasciava ridere e non vi badava; perché sapeva bene che molte cose buone, su questo mondo, cominciano sempre col muovere il riso in certa gente. Poiché ciechi aveano da essere, meglio valeva che stringessero gli occhi in una smorfia di ilarità, anzi che essere attaccati da qualche male meno attraente. Anch'egli, in fondo al cuore, rideva: e gli bastava questo, e non chiedeva altro”.

citazioni tratte da Charles Dickens, Il Canto di Natale.



domenica 12 ottobre 2014

Il fascino del gatto nero. Simbologie e superstizioni.




Se un gatto nero attraversa la strada che state percorrendo, è un indizio.
Vi è un enigma che aspetta di essere svelato e l’impresa che vi attende sfiorerà l’impossibile.
Sappiatelo. Dovrete fare appello al vostro sesto senso e al vostro intuito, e forse non saranno sufficienti.
Perché, se un felino corvino decide di recarsi dal lato opposto di un sentiero, evidentemente si sta recando in un luogo di propria conoscenza.
Si dirige, a passo lesto, verso l’antro di una strega? Vuole aderire ad una setta di maghi? E’ in cerca di un topolino? Ha sentito l’irresistibile richiamo d’amore di una focosa amante?
L’unico modo per saperlo è pedinarlo o porgli direttamente la domanda, nella speranza di una risposta che siate in grado di decifrare.
No, non vi porterà sfortuna, al massimo farete perdere tempo al gatto, qualora, gentilmente, volesse prestarvi ascolto.

La superstizione popolare, che taccia i gatti neri di essere menagrami e strumenti del male, ha origini antichissime e si è tramandata di generazione in generazione.
Andiamo a ritroso. Ancora e ancora.
Giungiamo a tempi arcaici, gravidi di Piramidi, di sfingi, di geroglifici, di templi candidi, di capitelli scolpiti con le foglie d’acanto.
Bruciamo incenso davanti alle effigi di figure femminili connesse alla sacralità attribuita ai gatti, ossia alle dee egizie Bastet, dalle fogge feline, e Iside. Quest'ultima, divenuta, in seguito, Artemide per i Greci e Diana per i romani, venne associata all’oscurità della notte e al nero assoluto e insondabile delle tenebre.
Con l’avvento del Cristianesimo, per scongiurare il proseguo dei culti pagani, i felini furono definiti incarnazione del demonio, in quanto simbolo di ciò che doveva essere condannato. 
I gatti neri, in particolare, assunsero una connotazione maligna, poiché ritenuti alleati delle streghe.
Donne reiette e i loro corvini amici finirono sul rogo, insieme, a migliaia, perché ennesime vittime della paura del “diverso”. Paura non solo di ciò che è estraneo, ma anche di ciò che è proprio e interiore, e, in virtù di ciò, ancora più inaccettabile.

Quando il sole viene inghiottito nel nulla, quando il sonno rallenta i ritmi del quotidiano, quando il buio elimina i contorni definiti e fa precipitare nell’incertezza, gli esseri umani, che si muovono alla ricerca di una verità solo anelabile, hanno, infatti, timore.
Timore del mistero dell’ignoto, della malia del sogno, di quanto, solo nell’invisibile, diventa percepibile.
Timore, soprattutto, della parte oscura che alberga in ciascuno: anche quando la si nega e la si imbriglia, essa scivola via e sfugge, ribelle, come una gatto nero che si muove con destrezza nella notte, indistinguibile nell’assenza di luce finché non apre gli occhi, lacerando le tenebre con due fiamme inquietanti che sembrano provenire da mondi sconosciuti e misteriosi. 
Invece, essi sono fiaccole da seguire, per trovare la strada, la propria strada.

Emma Fenu


lunedì 6 ottobre 2014

La caccia alle streghe. Quando il "diverso" fa paura.



Sguardo che ammalia e seduce.
Movenze feline, rapide e sinuose.
Mani come tele di ragno, capaci di irretire e imprigionare, con un solo gesto.
Bocca che proferisce formule arcane, attraverso le quali governare gli eventi.
A me il potere!”: un urlo che fende, come una lama intrisa di sangue, l’oscurità della notte.
Ecco la Strega, quale, nell’immaginario collettivo, a cavallo di una scopa, percorre itinerari magici, dalle pagine di fiabe e racconti fino alle feste, illuminate da zucche scavate ad arte, di Halloween.
In realtà la Strega è in ogni Donna, fin dalle origini del tempo umano.
Seguite le mie orme e la scia delle mie riflessioni: oltrepasseremo, insieme, millenni di storia nello spazio di poche righe. 
Fidatevi, parola di Strega.

In quasi tutte le culture primitive vige un analogo principio antropologico: il maschio si afferma nell’esercizio della caccia e della guerra, mentre, alla femmina, compete il mondo arcano dell’invisibile e i saperi occulti della chiromanzia e della taumaturgia. 
In principio, la Donna era tutto: fata, sibilla, maga e, soprattutto, strega.
Quest’ultima non prediceva il destino, ma, eroina sulle tracce di Prometeo, agiva su di esso: era sorella e figlia di Circe e Medea, compiva sortilegi e, per proprio sostegno, era capace di chiamare a sé le forze della natura.

Tuttavia, con il passare delle epoche, la strega divenne il simbolo della “donna diversa”, in cui confluì un amalgama di credenze sacre, elaborato in età antica, ma, soprattutto, medievale e rinascimentale, nel quale conversero la Lilith degli Ebrei, la Lamia dei Greci e le Strigi, le Saghe e le Volatiche dei Latini. 
A tali figure mitiche si affiancò, in seguito, la leggenda della brigata notturna, ossia la scorta di Diana, che venne definita triformis, in quanto dea della caccia e dei boschi, della luna e degli incantesimi notturni.

Così Omero descrisse l’incontro fra Odisseo e Circe

Ed io alla casa di Circe andavo; e molto il cuore nell’andare mi batteva. 
Mi fermai sulla porta della dea dalle belle trecce, e là fermo gridai; la dea sentì la mia voce. 
Subito, uscita fuori, aperse le porte splendenti, 
e m’invitava: e io la seguii sconvolto nel cuore. [...] 
Fece il miscuglio per me, in tazza d’oro, perché bevessi,
e il veleno vi infuse, mali meditando nel cuore”. 

La maga dell’isola di Eea , “la dea luminosa” e “dai riccioli ribelli”, è una donna che inficia le facoltà di discernimento grazie alle proprie splendide fattezze. 
L’esule eroe greco uscirà indenne dalle sue spire soltanto grazie ad un intervento divino e, comunque, solo dopo aver trascorso, con i suoi compagni, un lungo anno tra le seduzioni di Circe e delle sue ancelle.
La figura di Odisseo che, dopo essere riuscito a sopravvivere ai naufragi e alla guerra, rimane “sconvolto nel cuore” e trema, al pari di un fanciullo, al cospetto di questa figura bellissima e intrigante, apparentemente disarmata, riporta alla mente altri personaggi maschili, da Adamo in poi, che, sedotti da una donna, si sono resi colpevoli di nefandezze o coperti di ridicolo.

L’erede, seppur ben più sciagurata, della donna- maga, nell’ambito della tradizione della letteratura greca, può essere considerata Medea
I miti sulle sue origini sono due: secondo il primo la maga, figlia del re dei Colchi Eeta e discendente dal dio Sole, sarebbe la nipote di Circe e avrebbe per madre Ecate, la dea malvagia della magia e degli incantesimi. 
Un’altra tradizione la vuole, invece, figlia dell’Oceanina Idia e sorella di Circe. 
In entrambi i casi la relazione di parentela con la maga dell’Odissea è tutt’altro che casuale.
In Euripide, Medea ha un duplice volto: è una donna – vittima, ossia moglie abbandonata, sola, priva di parenti, di protezione e di difesa, ma è, anche e soprattutto, una donna – mostro, ossia forte e scaltra, che arriva a compiere il più turpe dei delitti, quello che nessuna onta subita, nessuna legge umana e divina può giustificare: l’uccisione dei propri figli.

Da qui all’Inquisizione e ai roghi su cui arsero donne e fanciulle, il passo è più breve di quanto sembri.
Gli storici si sono interrogati a lungo su tale fenomeno, una delle più atroci forme di violenza antifemminile mai compiute. 
Sono state individuate, a riguardo, parecchie ragioni: generalmente si ammette che la caccia alle streghe fu il risultato della proiezione, in un universo sovrannaturale, della miseria del tempo e dell’incapacità di opporsi agli assalti della natura. 
La società voleva dei colpevoli e li trovò tra le componenti più anticonformiste e marginali.
Lo storico Delameau, per connotare i terrori delle epoche, usa l’immagine efficace della “città assediata”, intendendo la condizione di paura che suscita la presenza “dell’altro”, del "diverso" da sé: la collettività deve riconoscere le Nemiche, difendere un ordine che dia ragione del disordine.

Io già preveggo da sì tremende deità gran bene venirne a questi cittadini”, dice, infatti, in Eschilo, Atena, riferendosi alle Eumenidi, le figlie della Notte, mentre il corteo degli ateniesi le accompagna, tra le fiaccole, sottoterra.
Le streghe furono, dunque, fondamentalmente, “capri espiatori”. 
Per gli uomini esse furono l’odiosa manifestazione del proprio femminile primitivo, che sussiste a livello inconscio, e, per le donne, esse furono l’oggetto su cui proiettare gli elementi più oscuri e incontrollabili delle muliebri pulsioni.

E oggi, chi sono le Streghe?
Chi sono coloro che si ribellano a convenzioni, che non si riconoscono in modelli stereotipati, che sono emarginate per via del proprio colore di pelle, della propria fede, della propria cultura, del proprio disagio economico? 
Guardatevi intorno. E non temete ciò che vi è ignoto: la diversità ci arricchisce e non la si può consumare neppure fra le vampe del fuoco.

Emma Fenu


mercoledì 10 settembre 2014

Baci infiniti, fatti d'inchiostro, di colore e di marmo.


Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disiato riso
esser baciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi baciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante
”.
Dante, Inferno, Canto V.



Di baci a lungo si scrisse, tutt’oggi si scrive e sempre si scriverà.
Ci sono parole capaci di farci sognare, immaginare, ricordare. 

Sia che si susseguano in pagine vergate con inchiostro corvino, consunte e ingiallite, perché soggette allo scorrere di troppi cicli lunari, sia in quelle candide e tese come la pelle di un bambino, digitate con Word, esse altro non attendono che di svelarsi.

Siamo travolti in un turbine infinito di frecce scagliate dall’imprevedibile Cupido, e, palpitanti, attraversiamo epopee cavalleresche e episodi biblici, fino a giungere ai romanzi e alle poesie che accennano allo sfiorarsi pudico delle labbra o che si soffermano sulla travolgente passione con cui due esseri si stringono in un bacio senza pause di respiro. 
Proprio grazie a tali letture, si è data vita a creazioni impalpabili di desiderio, ma anche a tangibili, e numerosissime, rappresentazioni artistiche.
Come non ricordare le meravigliose opere di Hayez, di Rodin, di Klimt, di Munch, di Magritte, di Chagall o di Brancusi? E mi limito a citarne solo alcune.

Tuttavia, una è la mia preferita, quella che, durante la mia prima visita al Louvre, mi ha rapito in volo l’anima e ha trascinato tutti i miei sensi in un vortice senza fiato. 
Mi ha baciata.
Si tratta del gruppo marmoreo ritraente Amore e Psiche, scolpito da Antonio Canova
I due amanti sono i protagonisti della celebre storia narrata da Apuleio, ne “Le Metamorfosi”, secondo la quale Psiche (che simboleggia, appunto, l’Anima), mortale di impareggiabile bellezza, si congiunge in matrimonio con Amore, il dio alato, pur non potendo mai scorgerne, alla luce, le fattezze. 
Spinta dalle sorelle, brucianti di invidia, ad infrangere il divieto, la fanciulla dovrà sottoporsi ad una serie di dure prove, prima di ricongiungersi al desiato marito, ottenendo, così, l’immortalità.

Nell’opera di Canova, il dio è colto nell’atto di abbracciare la donna, proteso verso la di lei bocca, impercettibilmente già dischiusa. L'armonica composizione a “incrocio”, detta chiasmo, dei corpi candidi e il cerchio creato dalle braccia di lui, catalizza l’attenzione dell'astante verso il centro, in cui l’attimo, scosso da brividi, che precede il contatto delle labbra, diviene, grazie all’Arte, immortale, imperituro e assoluto.

Il rumore di un bacio non è così forte come quello del cannone, ma la sua eco dura molto più a lungo”.
Oliver Wendell Holmes.


EmmaFenu
edito in Nordic Lifestyle Magazine




lunedì 8 settembre 2014

Il mio primo libro. Dalle “Fiabe della Buonanotte” a “Piccole Donne”.


Il mio primo libro.
Dalle “Fiabe della Buonanotte” a “Piccole Donne”.



Ho esitato, davanti al titolo che sovrasta l’articolo che vi accingete a leggere.
Molti sono i primi libri che hanno cosparso di parole i capitoli della nostra esistenza, come molti sono i primi baci che hanno accarezzato la nostra pelle.
Su quale libro urge, dunque, soffermarsi ora?
Vi è un primo che ci venne letto la sera, con la testa che affondava nel cuscino, quando ancora le lettere dell’alfabeto erano figure aliene, schierate, una dopo l’altra, come passeggeri stipati in piccoli vagoni separati da spazi bianchi, in un treno che giungeva a destinazione tramite la voce narrante del papà o della mamma.
Vi è un primo che ricevemmo in regalo, scartato con bramosia e suggellato da una dolce dedica.
Vi è un primo, infine, che leggemmo senza ausilio esterno, vittoriosi e felici, dopo aver avuto accesso al magico codice, i cui simboli, posti in avvicendamento sulla carta, lentamente si disvelavano… e la storia aveva inizio.

Le notti della mia infanzia, profumate di sapone di Marsiglia, sprigionato dalle lenzuola rosa, esordivano con le prime righe tratte da un tomo datato, riportante le Fiabe raccolte dai Fratelli Grimm.
Tuttavia, dopo una manciata di secondi, prendevano forma e colore altre storie, attinte dalla memoria, che mi proiettavano in distese infinite di piante di pomodori, dietro a corse con i piedi nudi, sulla terra fertile e umida, e fra sassaiole che coinvolgevano bande di ragazzini spettinati. Ogni sera mio padre componeva una parte della sua autobiografia, solo per me.


Fu mia madre, invece, a donarmi il mio primo libro, in occasione del mio terzo compleanno. Si trattava della versione cartacea di un cartone animato, all’epoca da me preferito, ossia “Heidi” di Johanna Spyri, che narra le vicissitudini della bimba dalle guance scarlatte, che si struggeva di nostalgia per i suoi monti della Svizzera, costretta dentro le mura di una lussuosa dimora di Francoforte. Alcuni giorni fa ne ho acquistato una versione edita nel 1953, in inglese. Il primo libro non si scorda mai.


Ma la svolta epocale della mia vita di essere contingente, avido di scoperta e di assoluto, fu il primo libro che lessi, agli esordi della scuola primaria, a sei anni appena compiuti: “Piccole Donne” di Louisa May Alcott, un classico intramontabile.
Ho amato le sorelle March, tutte, come sorelle con cui ricordare e confrontarsi, come esseri pensanti, liberi dai vincoli della carta, dotati di pregi e difetti, che osservano lo svolgersi delle medesime vicende tramite il filtro della propria peculiare prospettiva.
Tuttavia, per Jo avevo una predilezione. 
Adoravo quella ragazza dall’indole ribelle e passionale, capace di ideare storie per intrattenere la famiglia, anche quando l’eco della guerra diventa silenzio assordante, anche quando le tenebre gelide della morte calano, inesorabili, e di battersi per il suo sogno, con ostinazione e anticonformismo, fino a diventare una nota scrittrice.

Jo era molto occupata in soffitta, perché le giornate di ottobre cominciavano a farsi fresche e i pomeriggi erano corti. In quelle due o tre ore, durante le quali il sole si attardava con il suo calore sull’alta finestra, Jo, seduta sul vecchio divano, scriveva rapidamente, con le sue carte sparse sopra un baule”.

Desideravo essere Jo, da bambina. Non sono diventata Jo, ma me stessa, la quinta sorella March, come lo sono tutte coloro, Donne, anche se non più “piccole”, che hanno letto con trasporto il libro, apprendendo l’immenso fascino celato nell’intimo segreto delle piccole cose, quelle che vale la pena di assaporare e, tramite la scrittura, condividere.

Emma Fenu


edito in

martedì 26 agosto 2014

Quando si inizia a scrivere...

Quando inizierete a scrivere tutto cambierà, siatene consapevoli. 
Crederete, all'inizio, di avere la situazione in pugno. 
Sarete convinti di tenere ben saldi tutti fili, sia quelli della storia che vi proponete di narrare, sia quelli della vostra vita, che pensate non varierà, se non in pochi dettagli. 
Vi sbagliate. Sarete ostaggi d'amore
Vi sveglierete prima e cederete al sonno più tardi, perchè la Storia, non più di vostra proprietà, non più materia inerte, pretenderà la vostra dedizione
I personaggi di carta danzeranno, fluttuanti, scandendo le vostre giornate al ritmo dei loro passi. Sapranno aspettare, inermi, per i tempi destinati ai vostri cari e al lavoro, ma poi, ebbene sì, scalpiteranno. 
Potreste scordarvi di pranzare o di cospargere di formaggio gli spaghetti. 
Potreste camminare per strada, compiere con le membra i medesimi tragitti, ma, con la mente, essere altrove. 
Potreste annoiarvi terribilmente durante conversazioni banali, nelle quali avevate imparato a simulare un barlume di interesse. 
Potreste ritrovarvi a cogliere inaspettati gesti e a percepire la melodia muta emessa dalle vicissitudini, celate dietro la curva di un sorriso, in chi prima era solo il panettiere o il collega con cui dividete l'ufficio. 
I vostri sensi si affineranno, tutti. Vivrete in un mondo in cui colori, sapori, suoni aromi e consistenze tattili sono all'ennesima potenza. 
Leggerete libri, ma non solo, anche animi
Riterrete di essere cambiati, di non essere più voi stessi. Invece la vostra storia avrà scritto nero su bianco quanto, realmente, siete. 
Buona avventura. Sarà meraviglioso.

Emma Fenu


giovedì 7 agosto 2014

Il Mare è Vita. Un percorso fra mito e simbologia.

Il Mare è Vita. Un percorso fra mito e simbologia.

In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque”.

Genesi, 1, 1-2


Fin dalle prime pagine dei manuali di Storia della Filosofia, ci troviamo alle prese con l’acqua
La stessa acqua del liquido amniotico, che ci ha nutrito; dei riti di iniziazione (sacramento del Battesimo incluso), che ci ha fatto rinascere nello spirito, purificati; del mare sconfinato, in cui ci siamo sentiti liberi; della celebre teoria di Darwin sull’origine della vita, apprese fin dall’adolescenza; delle cascate maestose, davanti alle quali abbiamo avvertito il sublime della natura e la piccolezza della nostra contingenza.
I filosofi greci individuarono, infatti, proprio nell'acqua, uno degli arché o radici del cosmo, ossia un principio primordiale da cui tutto trae vita e a cui tutto ritorna. Aristotele la pose fra la terra e l’aria, agli antipodi del fuoco.

E quando sei su certe onde, montagne di acqua, vere montagne, non ti importa di nulla. […] E c'è un'armonia perfetta, in quei secondi che sei lì in equilibrio fra il mare e il cielo, quasi fermo mentre scivoli velocissimo tra l'acqua e l'aria, e il fragore”.
Gianrico Carofiglio, Il silenzio dell’onda.

Di circa il 70% di acqua siamo composti anche noi, esseri umani. 
L’acqua, dunque, è vita.
Ma non è solo una deduzione che si deve alla scienza, è un sapere ancestrale, che affonda le sue radici nel mito, quando la speculazione filosofica e fisico-matematica cede il posto al mistero irrisolvibile, a tutto ciò che accadde in un “prima” pangeico di cui non si ha memoria certa, ma intima percezione.
Fra i molteplici miti cosmogonici, uno dei più rinomati è quello, di matrice omerica, che collega l'Oceano, inteso come divinità, alla nascita dell'universo:

Vado a vedere i confini delle terra feconda,
l'Oceano, principio degli Dei, e la madre Teti".
Omero, Iliade, XIV

Aggiungiamo sale, moti ondosi, creature quasi immobili, guizzanti o volteggianti, vegetazione incantevole…e l’acqua diventa mare
Negli abissi della mia fantasia, ad onor del vero, c’è anche uno scrigno segreto, che racchiude un’antica pergamena, una mappa nella quale si indica la posizione di Atlantide. Bisogna trovare la chiave per dischiuderlo.

Il mare si racconta, ma soprattutto, narra di noi, dei nostri segreti, di quanto non sveliamo neppure a noi stessi.
E’ ricco di insidie: le Sirene, appostate fra Scilla e Cariddi, seducono con un canto melodioso, ma per condurre al temuto luogo del non ritorno. In questi frangenti, il mare è emblema dell’inconscio, di ascendenza freudiana, ossia simbolo di morte, in quanto rappresenta la voragine primordiale, insidiata da mostri, che inghiotte, impietosa, il sole al tramonto. Una morte che prelude, però ad una rinascita.

Appressati, Puck. Tu certo ben ricordi quando dalla cima d'un alto scoglio udii una sirena assisa sul dorso di un delfino la quale effondeva nell'aria tanto soavi ed armoniosi accenti che il rude mare s'ingentilì al suo canto, e alcune stelle, impazzite fuori balzaron dalle sfere per ascoltare la melodia dell'equorea fanciulla marina”.
Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate.

Perché, in verità, il mare è ventre materno, che ci protegge e ci tiene lontani da terre sconosciute, ma che ci partorisce una seconda volta, recidendo atavici cordoni ombelicali, per immetterci, oltre il mito dell’infanzia, nella Vita, ossia in un oceano incognito e burrascoso che va solcato, in un viaggio, tutto personale, fra acque e continenti. A volte si precipita negli abissi, ma poi si riemerge, vittoriosi, alla superficie, con i polmoni affamati d’aria e l’anima sazia di avventura.

Il mare non ha paese nemmeno lui, ed è di tutti quelli che lo sanno ascoltare”.
Giovanni Verga, I Malavoglia.

Emma Fenu
edito in Nordic Lifestyle Magazine

Foto by Carme Mura

mercoledì 6 agosto 2014

La Notte di San Lorenzo. Desideri e Ricordi.


La notte di San Lorenzo.
Desideri e ricordi.


San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l'aria tranquilla
arde e cade, perché si gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.
[…]
E tu, Cielo, dall'alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d'un pianto di stelle lo inondi
quest'atomo opaco del Male!
”.
Giovanni Pascoli, X Agosto.


ABAB. Rime alternate.
Sei quartine di decasillabi e novenari.
Assonanza, anafora, metonimia, iperbato, cesura, rima interna, enjambement.
Il cielo sconfinato che piange lacrime ardenti per l’omicidio di un padre, che spira, mormorando “perdono”, nell’atto struggente di porgere verso l’infinito due bambole, prese in dono per le sue bimbe.
L’arcano reiterarsi del male nella Storia.
Primo banco, a sinistra, ultimo anno di Liceo Classico.
Un lontano Luglio, umido e afoso.
Gli evidenziatori che tracciavano linee sul libro di Letteratura Italiana, durante le notti trascorse in attesa degli orali per l’esame di maturità.
Ecco quali ricordi mi sovvengono, nell’immediato, al termine del mio pronunciare o dell’udire, da altrui voce: “San Lorenzo”.




Ma, dopo qualche minuto, le reminiscenze diventano più dolci.
Il cielo non stilla più gocce di dolore, ma illumina il percorso, cosparso di sogni, di un gruppo di adolescenti, seduti in spiaggia, su teli da mare colorati, durante la notte del 10 Agosto. Tutti con i jeans corti e sfilacciati, vittime delle nostre forbici impietose, con le gambe nude, cosparse di “autan”, e con lo sguardo rivolto all’insù, nella bramosia di affidare ad una stella cadente il segreto di un avvenire tutto da compiere.
E poi il mento torna giù, il mero spazio di un istante, per scrutare il ragazzo dai riccioli mori.
Ma Lui si gira, le traiettorie degli sguardi s’incontrano e l’imbarazzo torce nuovamente il collo verso il manto, intessuto di stelle, della dea Iside, colei che, secondo la sacra verità, affidata al mito, può vincere la Fortuna e il Destino, regalando l’esaudirsi di un desiderio a chi le si affida.

Tu […] fatorum etiam inextricabiliter contorta retractas licia, et Fortunae tempestates mitigas, et stellarum noxios meatus cohibes”.
Tu […] sciolga i contorti e intricati fili del destino, mitighi le tempeste della Fortuna e corregga il corso funesto degli astri”.
Ovidio, Le Metamorfosi.



Emma Fenu

venerdì 1 agosto 2014

Emma's Words and Wool Creations.


Da tempo accarezzavo l'idea.
Tutto è soggetto ad evoluzione, ed è giunta l'ora in cui, a cingersi di nuovi panni, sia il primo mio blog.



"Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marca o colore dei vestiti,
chi non rischia,
chi non parla a chi non conosce.
Lentamente muore chi evita una passione,
chi vuole solo nero su bianco e i puntini sulle i
piuttosto che un insieme di emozioni;
emozioni che fanno brillare gli occhi,
quelle che fanno di uno sbaglio un sorriso,
quelle che fanno battere il cuore
davanti agli errori ed ai sentimenti".
Pablo Neruda

L'ho ribadito più volte, io sono una Donna di mente, cuore e membra. 
Pensieri, letture, riflessioni, analisi, viaggi e simboli che danzano nella mia mente, segnando, con il ritmo dei loro passi, perfino i battiti del mio cuore, mentre i piedi percorrono gli itinerari della vita e le mani danno vita a creazioni dal carattere vintage.
Fili infiniti di legami passionali e di lana variopinta, gomitoli e matasse da dipanare o da avvolgere attorno a un fuso in cui culminano, come nella penna di Jane Austen, ragione e sentimento

"Essendo venuto il momento della vecchia fata, essa disse tentennando il capo più per la bizza che per ragion degli anni, che la Principessa si sarebbe bucata la mano con un fuso e che ne sarebbe morta! Questo orribile regalo fece venire i brividi a tutte le persone della corte, e non ci fu uno solo che non piangesse.
A questo punto, la giovane fata uscì di dietro la portiera e disse forte queste parole:
"Rassicuratevi, o Re e Regina; la vostra figlia non morirà: è vero che io non ho abbastanza potere per disfare tutto l'incantesimo che ha fatto la mia sorella maggiore: la Principessa si bucherà la mano con un fuso, ma invece di morire, s'addormenterà soltanto in un profondo sonno, che durerà cento anni, in capo ai quali il figlio di un Re la verrà a svegliare
".
Charles Perrault, La Bella Addormentata

Tuttavia ho cura di lasciare scoperta la punta del fuso, affinché, contrariamente alla celebre principessa assopita nel bosco, vittima di una crudele maledizione, la goccia di sangue che stilla sul dito, a seguito del contatto, ci desti, alle prime rosee luci dell'alba o nel cuore di una notte senza luna, per cercare la nostra, parziale, fetta di verità, accompagnata da un sorso di tea alla vaniglia. 
Il titolo del blog, dunque, non è più "Emma's Wool Creations", ma "Emma's Words and Creations".
Del resto, per svelarsi ci vuole coraggio, e, per conoscere ciò che si nasconde, come un'ombra dietro la tela di Penelope, è richiesta audacia e gusto della scoperta.

Grazie a tutti per avermi attesa. 

"Se tardi a trovarmi, insisti, se non ci sono in un posto, cerca in un altro, perché io son fermo da qualche parte ad aspettare te".
Walt Whitman

Emma





martedì 22 luglio 2014

La vita è un viaggio. Simbologie ed introspezioni.


"Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi.
[…]
Lentamente muore chi non viaggia,
chi non legge,
chi non ascolta musica,
chi non trova grazia e pace in sé stesso”.
Pablo Neruda

I viaggi. Li amo perdutamente.
Adoro inciampare goffamente su cumuli di vestiti, scarpe, libri e prodotti per l’igiene personale, nella frenesia di preparare una valigia. 
Eccomi: sono l’apprendista stregone di disneyana memoria che, come un direttore d’orchestra, governo con maestria la danza di oggetti e idee che fluttuano, a ritmo sempre crescente, dirigendosi, da soli, verso i giusti scomparti.
La mia disposizione d’animo muta sensibilmente, come è vi sarà facile comprendere, se la partenza imminente mi deve condurre ad una agognata e spensierata vacanza o ad un trasferimento, destinato, quest’ultimo, a protrarsi per qualche anno o per un lasso temporale che non ho cognizione precisa di quanto sarà lungo.
In quest’ultimo frangente il mio cuore accelera e salta i battiti, in preda all’entusiasmo, alla nostalgia, all’ardore veemente della sfida e al brivido, aguzzo come un coltello, della paura di intraprendere percorsi non ancora battuti e di planare su cieli non ancora solcati.

Il coraggio è il complemento della paura. Un uomo che è senza paura non può essere coraggioso. (Ed è anche uno sciocco)”.
Robert Anson Heinlein


Eppure non è di tale tipologia di viaggi di cui vi voglio narrare. 
Ma di altri, di quelli straordinari che si svolgono nell’arco di pochi millimetri spaziali e di infinite distanze temporali
Mi riferisco ai sentieri che si intraprendono, tramite righe vergate d’inchiostro, sulla carta; ai voli che si fanno in completo silenzio, ammirando l’orizzonte nell’istante in cui mare e cielo generano un’osmosi sublime; alle partenze a ritroso nella memoria, scorribande affannose nel cuore della notte, quando, con un amico, ci si perde nei ricordi, entrambi privi di bussole e mappe; ai percorsi interiori che, precipitando come Alice nel pozzo, ci conducono sempre più in giù, alla ricerca e alla scoperta di ciò che in valigia abbiamo da sempre, talvolta dimenticato e nascosto.


Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”.
Marcel Proust


Il viaggio è una filosofia di vita, un approccio al mondo, un canale privilegiato per conoscere sé stessi ed entrare in empatia con gli altri. Non è mero movimento di membra e rombo di motori, si tratta di eccelsa metamorfosi, spietata rivoluzione e vigorosa rinascita.
“Partire è un po’ morire”: è il titolo di una poesia composta da Edmond Haracourt, ma l’espressione è entrata a far parte del comune parlare, come i proverbi ripetuti, con solennità, dai nonni, le celeberrime citazioni tratte dai film in bianco e nero, le note di Michelle dei Beatles. 
Ed è vero, viaggiare è seppellire la monotonia, ampliare i confini della propria mente e della propria coscienza, perforare il bozzolo di crisalide per spiegare le ali da farfalla. 
Coraggio, preparate la valigia, scegliete di portare con voi chi e ciò che vi sarà utile... il resto è solo una zavorra.

Bisogna chiudere i cicli. Non per orgoglio, per incapacità o superbia. Semplicemente perché quella determinata cosa esula ormai dalla tua vita. Chiudi la porta, cambia musica, rimuovi la polvere. Smetti di essere chi eri e trasformati in chi sei”.
Paulo Coelho

Emma Fenu
pubblicato presso Nordic Lifestyle Magazine

mercoledì 25 giugno 2014

Le meraviglie nascoste dentro il Baule della Nonna


Era un pomeriggio di mezza estate, mentre stavo, seduta sul pavimento, nella soffitta di una casa di tre generazioni. I raggi di sole che filtravano, obliqui e taglienti come dardi, dalle persiane dischiuse, mi illuminavano il volto, le mani e sezioni, solo minime, degli oggetti circostanti.
L’ambiente profumava di naftalina, di carta, di legno e dell'indecifrabile aroma dei ricordi
Ah...l' odore di naftalina: quell’effluvio, tutt’ora, mentre scrivo, mi fa tornare indietro di quasi 30 anni, all’epoca della mia infanzia, quando mia nonna mi mostrava, aprendo la scatola di legno foderata che la conteneva, una bambola in porcellana risalente ai primi del ‘900. 
Quando sento o leggo l'espressione “frugare nel baule della nonna”, so bene di cosa si tratta. E’ un’immersione amniotica in epoche mai vissute, di cui si avverte struggente nostalgia, perché, inscindibilmente, esse sono parte di noi, della nostra storia personale. Gli oggetti dei nostri avi ci raccontano le nostre origini, in un legame che trascende il dna, per coinvolgere direttamente l’anima.
Avevo poco più di vent’anni, indossavo jeans a vita bassissima, avevo pittato le unghie con un improbabile azzurro, ottenuto mischiando uno smalto trasparente con un ombretto acquistato in una bancarella. Ero giovane, incredula e ammaliata, mentre disserravo pesanti bauli in legno scuro, forgiati, da abili artigiani, appositamente per contenere il corredo di una fanciulla, futura sposa e madre.
Ho accarezzato pizzi e ricami frutto di impareggiabile maestria, i primi creati con la tecnica del tombolo, i secondi, a punto pieno su seta, fondono, come quadri, mille sfumature, ritraendo fiori, uccellini e farfalle. 
Ho spiegato lenzuola e tovaglie di lino, che recavano i segni ingialliti degli anni, contemplando i trafori che danzavano sulla superficie, simili a opere di fate con mani abili e minuscole.
Forse le janas esistono davvero, ne ho toccato e ammirato i capolavori.
E tali bellezze, conservate in soffitta, le ho riportate in vita, facendole brillare alla luce del sole. 
Alcuni oggetti o elementi d’arredo non sono soggetti allo svolgersi del tempo e al mutare delle mode: un copriletto realizzato all’uncinetto, un centrino, una tovaglia ricamata, un cuscino o un tappeto, tutti rigorosamente vintage e handmade, possono essere inseriti anche in un arredamento moderno, creando un contrasto molto interessante e piacevole, oppure possono essere utilizzati solo in occasioni speciali, come una festa di battesimo.
Altri, invece, necessitano di un cambiamento di destinazione d’uso
Preferisco, ovviamente, stirare con un ferro di ultima generazione, rispetto a quello che si scaldava con la brace, dato che, neppure con il primo, ottengo risultati apprezzabili. Ma quell’antico ferro è perfetto per inserire una piantina, da collocare sul davanzale della finestra, o per diventare un inedito fermacarte su una scrivania. 
Analogamente, le lenzuola in pregiato lino, oggi, risultano pesanti e poco pratiche per assolvere alla propria funzione originaria, ma possono essere materiale per creare meravigliosi cuscini e sovra-tentaggi.
E le valigie d’epoca? Prive di rotelle, fragili e poco ergonomiche, sono certo improponibili per un viaggio, ma davvero spettacolari se usate come complementi d’arredo, impilate l’una sull’altra, oppure se, una volta munite di gambe lignee, trasformate in tavolini o comodini, su cui poggiare un vasetto con un fiore fresco.
Infine, ecco il turno del protagonista indiscusso di questa storia: il baule di legno. Immaginatelo al naturale, o scartavetrato e riverniciato con colori ad acqua, posto al centro del vostro salotto, esattamente davanti al divano, con, all’interno, le vostre riviste preferite e, sopra, un vassoio con due tazze da tea o due boccali di birra, a seconda dell’ora del giorno e dei vostri gusti. 
Non solo chi è fatto di carne, ossa e sangue ha un’anima.

Emma Fenu