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mercoledì 30 dicembre 2015

Tempo di bilanci

Tempo di bilanci, di parole da scrivere di getto, senza frapporre filtri fra cuore e dita che scivolano sulla tastiera come slitte sulla neve.

Il 2015 è stato uno degli anni più belli della mia vita.
Facile? No, affatto. 
Anzi, arduo, imprevedibile, spesso in salita. Come un gioco dove non si bara e non ci sono assi nascosti nelle maniche, ma tutte le carte sul tavolo e braccia nude.
Eppure, proprio per questo, intenso, memorabile, ricco di soddisfazioni e di conquiste piccole, una dopo l'altra, ognuna immensamente preziosa. 
Passo dopo passo, tassello dopo tassello, partita dopo partita, mese dopo mese, attimo dopo attimo... sono cresciuta (o invecchiata, dipende dalla prospettiva!).

Grazie 2015, perchè un anno di vita è un dono immenso ed io ho avuto l'occasione di goderlo con passione in una danza di mani tese, le mie e quelle altrui.
Ed è con queste mani, grazie ad esse, che  mi accingo a dare il benvenuto al futuro.

Emma Fenu


martedì 7 aprile 2015

QUANDO IL SOLE DIVENTA NERO.


QUANDO IL SOLE DIVENTA NERO.

La danza abbia inizio. 
Sole e Luna in un passo a due, come due amanti in un minuetto di corteggiamento, che culmina in un bacio, in una stretta appassionata, in una fusione totale.
O forse si tratta di una lotta, uno scontro atavico fra femminile e maschile e fra buio e luce, che si conclude in una pace perfetta, senza sangue e senza dolore, o in un abbraccio di morte, come per Tancredi e Clorinda.
O forse, ancora, un dio o un demone, liberato dalle catene della prigionia, si lancia contro l’astro, tentando di divorarlo con un morso bramoso di vendetta.
L’eclissi, dunque, dipinge il suo nero con l’inchiostro della magia, intingendo la penna nel mito e nella leggenda.

Non schivar, non parar, non pur ritrarsi
voglion costor, ne qui destrezza ha parte.
Non danno i colpi or finti, or pieni, or scarsi:
toglie l'ombra e'l furor l'uso de l'arte.
Odi le spade orribilmente urtarsi
a mezzo il ferro; e'l piè d'orma non parte:
sempre il piè fermo e la man sempre in moto,
né scende taglio in van, ne punta a voto”.
Torquato Tasso, Gerusalemme Liberata, Canto XII

Tale rottura del rassicurante ordine cosmico, per alcuni popoli, era un segno nefasto, come per gli antichi Greci, per altri un momento sacro, come per i Navajo.
In particolare, i nostri amati Vichinghi immaginavano che la Dea Sole (nella cultura nordica è una divinità femminea) ogni giorno attraversasse la volta celeste guidando un carro trainato da due destrieri. Tuttavia, la sua corsa non era immune dal pericolo poiché, combattendo in eterno una battaglia con il lupo Sköll, talvolta veniva braccata e poi raggiunta. In ragione di ciò, per scacciare la bestia feroce, gli ardimentosi guerrieri agitavano verso l'alto, con fare minaccioso, spade e lance e, una volta terminata l’eclissi, salutavano il ritorno della luce con urla ebbre di vittoria.

E oggi, cosa ci racconta il Sole nero? Ci offre un affascinante spettacolo della natura, per ricordarci che ne siamo parte e che siamo ordine e Kaos, luce e ombra, stirpe numerosa di un universo fecondo che invita alla pace fra uomini e dentro di essi.

L’eclisse di sole è un fenomeno temporaneo. L’eclissi della mente, un fenomeno che non finisce mai”.
Mieczysław Kozłowski

Emma Fenu

venerdì 13 marzo 2015

Il fascino di un'eterna Primavera.




"Primavera dintorno

brilla nell'aria, e per li campi esulta,

sì ch'a mirarla intenerisce il core".

Giacomo Leopardi

Ci trovammo una di fronte all'altra. Fu il nostro primo di tanti incontri.
Io avevo dodici anni e la primavera della vita mi scorreva impetuosa nelle vene, regalandomi tre centimetri di altezza in più, nel corso di un'estate.
Lei vive nel suo tempo baciato dall'eternità e in uno spazio che pare circoscritto fra assi di legno intarsiato, ma è, invece, infinito, con l'orizzonte che abbraccia ogni astante. 
Potevo percepire l'aroma intenso delle arance e dei fiori umidi di rugiada. Una ragazzina che ha appena concluso la seconda media ignora i cardini della filosofia neoplatonica e non può elencare che poche note storiche sulla famiglia De Medici. 
Eppure, il messaggio che invita ad una perenne rinascita mi investì, come tutti gli altri accanto a me, disposti davanti al celeberrimo quadro dipinto da Sandro Botticelli, con i piedi sul pavimento degli Uffizi e il cuore rapito, che si librava a mezz'aria. 
Travolti da una danza di figure, tratte dai versi del Mito, non potevamo non cogliere l'invito ad abbracciare un amore puro ed assoluto, che trascende il contingente scorrere del tempo e delle stagioni, e conduce, seguendo una dolce melodia, in una dimensione incantata, dove la primavera non ha mai fine.

"Potranno recidere tutti i fiori, ma non potranno fermare la primavera".

Pablo Neruda

Emma Fenu

mercoledì 11 febbraio 2015

La persona è una maschera.


La Persona è una Maschera.

"Mi metterò una maschera
da imperatore,
avrò un impero
per un paio d'ore:
per voler mio dovranno
levarsi la maschera
quelli che la portano
ogni giorno dell'anno...
E sarà il carnevale
più divertente
veder la faccia vera
di certa gente".
Gianni Rodari

"Chi sono io?".
"Una persona".
E l’articolo potrebbe concludersi qui, adesso, se non venisse in soccorso l’etimologia.
Gli antichi latini, infatti, denominarono “persona”, appunto, la maschera di legno o terracotta portata dagli attori, intesa non tanto quale occultamento delle reali fattezze, quanto come un mezzo per favorire l’immediata identificazione dei personaggi sulla scena e come una cassa di risonanza che permetteva alla voce di essere udita anche a lunga distanza.
Gustav Jung, celebre psichiatra svizzero dello scorso secolo, ben consapevole della storia del termine ora in analisi, definì “persona” il ruolo che ogni essere umano svolge, nel mondo esterno, per rispondere a precise aspettative sociali.
Ma cosa accade quando un individuo diventa troppo “persona”, ossia si identifica eccessivamente con la maschera che indossa? 
Qui interviene, oltre alla psicanalisi, ancora una volta, il teatro per renderci chiaro e fruibile il messaggio: secondo Pirandello la società moderna porta ad un’alienazione dell’individuo, che si sente defraudato della propria identità in quanto costretto a ricoprire un ruolo stereotipato.
Per il novecentesco autore italiano, che abbiamo conosciuto fin dai banchi di scuola, paradossalmente, è la scena ad essere il luogo della verità, in quanto la maschera teatrale fa cadere quella sociale.

Seguitemi in un salto nel tempo.
Corre l’anno 1921
Avete indosso il vostro miglior vestito e vi accingete a varcare la soglia del teatro. 
Le quinte sono svelate… dove è la scena? Smarrimento. Indignazione.
Ed ecco comparire sei personaggi senza nome, identificati da un mero ruolo, che invocano il capocomico per avere una parte, che spetterà, invece, ad attori professionisti.
Nessuno degli astanti è pronto, tutti sono straniati.

Ma oggi, tempo di nickname e di identità virtuali, siamo consapevoli più che mai di vivere nell’apparenza e che la maschera non è solo attributo degli attori o orpello delle feste carnevalesche. 
E’, dunque, un filtro che ci imbriglia in ciò che non siamo o ci permette, a nostra scelta, di essere e dire senza timore di giudizio?
Oscar Wilde sentenziò: “Ogni uomo mente, ma dategli una maschera e vi dirà la verità”.
Voi cosa ne pensate? 
Scopritelo guardandovi allo specchio, la sera, prima che il sonno vi accolga. Nell’oscurità chiedetevi: "Chi sono io?".

Emma Fenu
tratto da 

lunedì 12 gennaio 2015

Una contemporanea Regina delle Nevi



Come resistere al fascino magnetico dei colori delle terre dell’estremo Nord, al bagliore argenteo dei ghiaccio, al candore assoluto delle distese innevate, al celeste freddo di cieli attraversati da luci di cristallina purezza? Impossibile, soprattutto in pieno inverno!
Prepariamoci, allora, ad accogliere, anche all’interno del nostro armadio e nei cassetti della nostra consolle deputata al trucco, gli spunti necessari per acquisire un’eleganza glaciale ed eterea, capace di trasformarci in una Regina delle Nevi, se pure in versione casual e confortevole.
Da cosa iniziare? Da un must, ossia un maglione in lana a trecce, realizzato in un morbido tono di bianco latte. Marilyn docet: non è un capo mortificante, ma, se portato con sensualità, rende estremamente femminili.
Tuttavia vi invito ad osare molto di più e a indossare un outfit total white, sfidando lo stereotipo secondo il quale i colori chiari sono destinati alle stagioni calde e che, per illusione ottica, regalano indesiderati centimetri attorno alla vita o ai fianchi. 
Quello che conta e fa la differenza è il taglio e il modello del vestiario, che deve valorizzare le nostre forme, esaltandone i pregi e occultando eventuali imperfezioni.
E, dunque, bianco sia! 
Se il vostro incarnato è olivastro, prediligente nuances calde, accostando anche dettagli beige; se, invece, avete una pelle diafana, concedetevi toni freddissimi, viranti all’argenteo.
Per affrontare le temperature rigide è necessario un capo spalla di qualità e un paio di stivali che assicurino un comfort immediato: i brand che vi segnalo in merito, rispettivamente Herno e Ugg, sono molto noti e sanno coniugare tendenze modaiole con le esigenze che conseguono alle intemperie stagionali.
La borsa non può non richiamare il motivo dominante, magari aggiungendo un tocco sfizioso e divertente, per esempio tramite due pom pons in ecopelliccia.
E, infine, veniamo al momento del make up, nel quale, come un pittore provetto, potremo intingere pennelli su una tavolozza e creare inedite sfumature che sottolineino i nostri lineamenti e esaltino lo sguardo, la curva del sorriso e le movenze delle mani. 
Le proposte di Pupa per il 2015 fanno davvero al caso nostro, in quanto ispirate addirittura alla magia estasiante dell’aurora boreale, in cui il bianco del paesaggio innevato si tinge di rosa, lilla, viola e turchese, riflettendo lo spettacolo del cielo.
Il look che vi suggerisco in questa occasione non può definirsi low cost, tuttavia esistono sul mercato moltissime varianti, ispirate ai capi originali, che vi consentiranno un indiscutibile risparmio.
Buon inverno, ragazze. Siate le Regine della vostra favola.

Emma Fenu

Le infinite domande di Jostein Gaarder. Quando la Filosofia è una Favola.


“Il tempo ci rende adulti. E il tempo fa sì che antichi templi crollino e che isole ancora più antiche sprofondino nel mare. […] Ma qualcosa, dentro di me, sa che c'è ancora un Jolly in giro per il mondo. Sarà lui a far sì che il mondo non si addormenti. In qualsiasi momento, in qualsiasi luogo, potrebbe spuntare un minuscolo giullare coperto di campanelli”.
L’enigma del Solitario 

Se, oggi, voglio assaporare l’atmosfera del nord, mi basta dischiudere le mie finestre che, in queste mattine di inverno, si rigano di arabeschi di gelo, e ammirare i tetti innevati di Copenhagen, sormontanti dall’ombra scura di tronchi neri e maestosi, che si stagliano su un cielo di luce bianca. Dopo pochi minuti, però, il buon senso mi porta a richiudere le ante, per il troppo freddo e per il vento polare che fa volare i miei carteggi come fiocchi di neve in balia di una bufera.
Tuttavia, lo spettacolo non finisce: attraverso i vetri, ormai disappannati, rivolgendo lo sguardo verso il basso, scorgo orme umane e strisce di ruote di bici che, istante dopo istante, creano un reticolato fitto di direzioni di viaggio. Ognuno per la sua strada, con i suoi pensieri, con le sue domande.
Ma se pensate alla Scandinavia soltanto come la terra del gelo, delle coltri immacolate, delle slitte tintinnanti di un popolo di Babbi Natale e dei boccali di birra che si scontrano in brindisi dal suono gutturale…vi sbagliate.
Questo, infatti, è anche il luogo magico delle fiabe, dove gli eredi di Andersen non hanno mai perso l’innocenza del sogno e la caparbietà di cimentarsi con interrogativi ancestrali.

Sono già partita per il Nord, mille volte, prima di mettervi fisicamente piede, due anni orsono. Ho viaggiato in compagnia di Jostein Gaarder, scrittore norvegese, precisamente di Oslo, a cui si devono svariate opere, la più celebre delle quali è “Il mondo di Sofia”.
Mi è stato necessario solo stringere un suo libro fra le mani e tenere l’orecchio teso, nel silenzio del crepuscolo, per captare l’eco delle infinite domande.
Se volete immergervi in questa storia, seguite il mio esempio, ovunque voi siate.
Ascoltate.
Chi siamo?
Da dove veniamo?
Dove andiamo?”.
Alcuni di voi avranno già sprigionato innumerevoli riflessioni, saettanti come zoccoli di renne sul bosco del pensiero; altri avranno deglutito, perplessi, come chi si arrischia ad affrontare a remi il mar Baltico; altri vorranno un sorso di gløgg, per iniziare a ragionare.
Eppure avete già compiuto il grande passo. Avete scoperto il piacere della Filosofia, figlia prediletta dello stupore, che si nutre di domande e non si sazia di risposte.

Una risposta non merita mai un inchino: per quanto intelligente e giusta ci possa sembrare, non dobbiamo mai inchinarci a una risposta. Chi si inchina si piega. [...] Non devi mai piegarti davanti a una risposta. [...] Una risposta è il tratto di strada che ti sei lasciato alle spalle. Solo una domanda può puntare oltre”.
C’è nessuno?

Forse, e lo ignorate ancora, siete i protagonisti di un libro e “qualcuno” scrive le vostre storie o forse “qualcuno” cerca di mettersi in comunicazione con voi, da fuori o da dentro il vostro universo. 
Lo scoprirete. 
Sappiate, finora, che, se formulate bene la domanda: “C’è nessuno?”, potreste scorgere un bambino appeso ad un albero di mele, a testa in giù, con cui dialogare sul senso della vita.

Siamo l'enigma che nessuno decifra. Siamo la favola racchiusa nella propria immagine. Siamo ciò che continua ad andare avanti senza arrivare mai a capire”.
Maya

Emma Fenu

martedì 9 dicembre 2014

Un outfit per le Feste.



Tutti abbiamo presente la somma regola: “lessi is more”, enunciata dal celebre designer tedesco Ludwig Mies van der Rohe. 
Il grande maestro del Movimento Moderno, impegnato, negli anni venti e trenta dello scorso secolo, a coniugare il concetto di bellezza con quello di funzionalità, non doveva, tuttavia, essere un assiduo frequentatore di feste dicembrine.
E’ innegabile che, se desideriamo essere impeccabili ed eleganti, il tubino nero indossato dalla mitica Audrey è un classico intramontabile, un sacro dogma del buon gusto.
Ma, concediamoci il divertente lusso di essere molto “more”, almeno per una sera all’anno, e liberiamo la nostra parte più stravagante, assecondando un'irrefrenabile voglia di rosso, di paillettes e di lustrini.
Vi propongo una soluzione esplosiva, ma dal costo contenuto, affinché abbia il sapore di un cioccolatino sfizioso, non l’effetto debilitante di un salasso!

Iniziamo con un vestito in stile vintage, con scollo a cuore, gonna a ruota e vezzoso fiocco in vita, in una tonalità di rosso scura ed intensa, che dona a tutte un’aria sofisticata, senza rubare la scena allo scarlatto che contraddistingue la sagoma di Babbo Natale.
Urgono, ora, le scarpe: croce e delizia di ogni donna, soprattutto se dotate di tacco vertiginoso.Vi suggerisco una peep-toe con motivo a intreccio, in satin color nero
Per completare l’outfit, vi invito a frugare con perizia nell’armadio e nei cassetti. Vi basterà rispolverare una mini borsetta a mano, meglio ancora se non dello stesso colore delle scarpe, ma in armonia con la nuance del vestito; e una parure scintillante, illuminata da cristalli Swarovski, o presunti tali. 
In caso ne siate sprovviste, le catene di accessori low cost vi attendono!
Finalmente, è giunto il momento di osare con il make-up: smalto e rossetto color porpora non potranno essere assenti giustificati. Consigliare il punto di colore per laccare le labbra, è arduo compito; a discapito di quanto si pensi, infatti, il rossetto rosso sta bene a tutte, basta trovare la sfumatura perfetta che si armonizzi con l’incarnato, lo smalto dei denti e la forma della bocca.
In questo periodo prediligo "Color Elixir" di Maybelline, una lacca per labbra che regala un effetto morbido e setoso.
E, infine, per le più eccentriche, un fascinator, provvisto di veletta, è la mossa vincente per essere indimenticabili, al contempo vintage lady e ironica vamp. 
Io non vi rinuncerò di certo! Buon divertimento.

Emma Fenu







lunedì 8 dicembre 2014

E' sempre il momento di intonare un Canto di Natale.



Io onorerò sempre Natale nel cuore, io ne serberò il culto tutto l'anno. Vivrò nel passato, nel presente e nell'avvenire”.

I romanzi di Charles Dickens sono magia letteraria. Incantano e rapiscono fin dai memorabili incipit, conducendo il lettore in un mondo talmente reale da apparire grottesco, come in una caricatura deformante, dove la denuncia sociale non è sterile acredine, ma invito alla riflessione.
Ma non solo, le opere dello scrittore ottocentesco, divertono, nel senso etimologico del termine, ossia portano altrove, in una manciata di righe.

"Marley, prima di tutto, era morto. Niente dubbio su questo. Il registro mortuario portava le firme del prete, del chierico...". 
Ed ecco qua, il libro è appena iniziato e io sono già proiettata ne "Il Canto di Natale"!
Mi sdegno per la smorfia sprezzante dipinta sul volto di Scrooge, tendo la mano per accarezzare il faccino tenero di Tim, tremo al cospetto dei tre spettri e mi sciolgo in calde lacrime di commozione davanti ad una tavola imbandita a festa, dove c'è sempre posto per un ospite inatteso.

Tuttavia, non vi racconterò la storia narrata da Dickens nella sua celebre opera. E’ un libro talmente intenso e coinvolgente, nella sua brevità e scorrevolezza, che merita di essere riletto, ancora e ancora, ogni Dicembre. Nessuna recensione, infatti, potrebbe rendergli il giusto tributo.

Vi scriverò, invece, di destino, e della possibilità di cambiarlo, grazie alla volontà di sapersi mettere in discussione; di liberarsi di inutili zavorre, per riappropriarsi di inestimabili tesori sconsideratamente accantonati; di accogliere l’alba di un nuovo giorno con un sorriso che si riflette sui visi di chi ci è accanto, anche soltanto per pochi passi, lungo la strada che ci aspetta. 
A Natale siamo tutti più buoni, si suol dire. 
Ad essere onesti, si è più recettivi, poiché più propensi a fermarsi, rallentando il ritmo convulso della quotidianità, per assaporare un ricordo che, talvolta, lascia un retrogusto amaro, o per pregustare una fetta di futuro, lungo la scia di un sogno. 
Non diventiamo altruisti nello spazio di pochi giorni, scanditi da neve e luci intermittenti, per poi spegnerci nell’indifferenza e nell’egoismo, a festa finita. 
Cerchiamo solo di placare il borbottio della coscienza, che pare trovare solenne udienza solo se di rosso vestita. 
Tuttavia, se le secche di Gennaio ci ritroveranno tali e quali eravamo al cadere delle prime foglie brunite, non avremo saputo ascoltare abbastanza il tintinnio delle slitte trainate da renne. Saremo rimasti sordi e il destino ci osserverà beffardo, nutrendo il nostro fallimento con briciole di panettone stantio.
Eppure ci spetta l'onore della scelta: basta ritagliare il nostro tempo per i genitori anziani o per i figli piccini; indignarsi per le ingiustizie, senza esserne omertosi complici; difendere diritti, invece che sottrarli, combattendo una guerra fra poveri; concedere un sorriso, prima di pretenderlo.
Sono le piccole cose, messe in fila come i vagoni di un trenino fiammante scartato ai piedi dell’albero, che cambiano il futuro del mondo, se siamo memori del passato e solerti allievi del presente. 
Questa è la mia favola, da scandire piano, con dolcezza, la notte della vigilia. E ogni favola è possibile, basta crederci.

Risero alcuni di quel mutamento, ma egli li lasciava ridere e non vi badava; perché sapeva bene che molte cose buone, su questo mondo, cominciano sempre col muovere il riso in certa gente. Poiché ciechi aveano da essere, meglio valeva che stringessero gli occhi in una smorfia di ilarità, anzi che essere attaccati da qualche male meno attraente. Anch'egli, in fondo al cuore, rideva: e gli bastava questo, e non chiedeva altro”.

citazioni tratte da Charles Dickens, Il Canto di Natale.



domenica 9 novembre 2014

Un caldo abbraccio di Lana.


"Chi lavora con le sue mani è un lavoratore. Chi lavora con le sue mani e la sua testa è un artigiano. Chi lavora con le sue mani e la sua testa ed il suo cuore è un artista".
Francesco D'Assisi

Eccomi a voi, in altre vesti.
In soffici vesti di lana, per essere precisi.
No, non ho deposto la penna a favore dei ferri, entrambi sono privilegiati strumenti di espressione del mio mondo interiore.
Mentre i miei pensieri e le mie idee corrono e si rincorrono, fra epopee e personaggi fatti di carta e sogno, infatti, le mie mani continuano a muoversi, sia per digitare lettere sulla tastiera del portatile, sia per confezionare un capo in lana
Non c'è soluzione di continuità, in primis perché, grazie alle due X in sequenza dei miei cromosomi, posso svolgere più attività in contemporanea: ossia leggere, scrivere, analizzare, recensire, intervistare, sferruzzare, registrare messaggi vocali su whatsapp, destinati ad un'amica, programmare nel minimo dettaglio il prossimo week end (e i prossimi dieci anni, se sono in vena) con mio marito, sgranocchiare patatine.
In secondo luogo, perchè ogni mia creazione è una storia che prende vita, come un romanzo o un quadro, prima concepita e, infine, generata per raccontarsi, o attraverso parole vergate ed immagini evocate o attraverso sequenze di colori e sensazioni tattili.
Talvolta, invece, mi concentro esclusivamente sullo sferruzzare, come assorta in una forma di meditazione antica. Mi siedo, con le gambe incrociate, a lato di una grande finestra da cui il mio sguardo domina i tetti di Copenhagen, accendo una piccola lampada e qualche candela, in quanto le serate dell’autunno nordico sono piuttosto buie.

Ecco cosa si cela dietro ai capi in lana che realizzo con frenetica passione: non sono solo accessori sfiziosi, di sicuro impatto sul look personale di ciascuna, ma stralci di poesia, fantasie che, come cavalli alati, si lasciano dolcemente imbrigliare da fili di lana pregiata, che intreccio personalmente.
Adoro coniugare tendenze contemporanee con ispirazioni retrò, per originare creazioni estremamente versatili, caldissime, comode, ma, al contempo, irresistibilmente chic. 
Benvenuti, dunque, nel mio mondo incantato, popolato da cappelli, sciarpe, cappucci, poncho, stole, scialli, colletti, scalda collo, guanti, copertine e moda per bambini
“Ogni Favola è possibile”: basta un buon libro da leggere e, magari, uno da scrivere; il caldo abbraccio della lana sulla pelle infreddolita e la visione di un gomitolo apparentemente inerte, che, non appena toccato dai ferri, simili a bacchette magiche, inizia la sua danza, ritmata dal ticchettio delle punte che si sfregano. 
Abracadabra… la magia delle piccole cose è a portata di “lana”.

"La vita è un gomitolo che si consuma. Si spera che al centro ci sia la felicità e così continuiamo a tirarlo, ad arrotolarlo velocemente come velocemente viviamo la vita senza pensare che con quel gomitolo potremmo fermarci a cucire i nostri giorni e ricamarne su di essi momenti stupendi".
Domenico Torrelli


Emma Fenu

Un cappuccio da Favola




e un altro cappuccio per una piccola orsetta!






mercoledì 22 ottobre 2014

Sferruzzare in compagnia sotto i tetti di Copenhagen.


"Un’amicizia tra donne è come un continuo rammendo; è un maglione, anzi tanti maglioni; è il sospiro di sollievo con cui, il primo giorno d’autunno, apriamo l’armadio e loro sono lì, che ci aspettano. 
Sono maglioni di shetland, che pizzicano un po', come amiche dal carattere pungente, non risparmiano critiche taglienti; sono i pull modaioli, che amano stare in vetrina, sotto gli occhi di tutti, amiche energizzanti… 
E poi c’è il cardigan comprato per caso un giorno di pioggia in campagna o in una città straniera. faceva così freddo e non avevamo niente di caldo in valigia. E invece quel maglione comprato per caso diventa il nostro preferito, non sappiamo più farne a meno. E’ il maglione che ci mettiamo quando siamo tristi, quello in cui stiamo più comode. E’ l’amica che chiamiamo quando la vita ci fa sentire al freddo. Quella che sa come consolarci, sempre".
Lisa Corva

Mi sono trasferita a Copenhagen lo scorso Luglio, nel tripudio della meravigliosa estate danese, che non è una morsa afosa, ma l’abbraccio caldo e gioioso di un sole capace di far sfavillare i colori sgargianti dei parchi lussureggianti; delle case variopinte del porto di Nyhavn, proiettate sulle acque dei canali, solcati da imbarcazioni gremite di turisti; dell’infinito susseguirsi di edifici ricoperti di mattoncini e adornati di modanature candide; della “pelle” bronzea, dalle sfumature che rammentano gli abissi marini, che riveste la statua della Sirenetta.
L’autunno arrivò in fretta, e con esso, nell’atmosfera magica, tipicamente nord europea, del Natale incipiente, la voglia di leggere un libro, con, stretta fra le mani, una tisana bollente, e liberi nella mente mille pensieri; la voglia di poggiare i piedi scalzi sopra un tappeto di pelliccia ecologica, mentre, dalla propria finestra, si osserva lo scrosciare della pioggia.
Era giunto il momento ideale per rispolverare i miei amati ferri ed iniziare a dar vita, tramite l’intreccio fatato di fili di lana e seta, a cappelli, sciarpescaldacollo, poncho, guanticopertine, e scaldatazza.
Io sono una donna a cui piace pensare, scrivere, leggere, conoscere, perdersi in fantasie, credere ed elaborare teorie e ideali, emozionarsi, vivere intensamente e introspettivamente.
Sono una donna di cuore e di testa, quindi, ma non sarei completa senza le mie mani, senza il potere creativo che mi donano, dando forma alle immagini che popolano i miei sogni.
E, dopo l’autunno, fu la volta dell’inverno, cadenzato da giornate molto brevi; raggi di sole frequenti quanto avvistamenti UFO; bufere; susseguirsi di fiocchi di neve piccoli, gelati e pungenti, che attraversano il cielo in orizzontale, in balia del vento polare, il quale soffia con veemenza e rievoca alla mente orsi bianchi e distese immacolate di ghiaccio.
Gelido ma ammaliante, l'inverno di Copenhagen. A volte lo si detesta, ma se ne subisce il fascino.
Sferruzzare, allora, non è più stato per me solo un momento intimo, ma è divenuto, una forma di collante sociale, un’occasione d’incontro, in una città cosmopolita, fra donne e ragazze, tutte appassionate di handmade, non solo danesi, ma provenienti da vari paesi: dall’Italia, alla Spagna, alla Russia, al Marocco, al Giappone, al Brasile. Insieme ai fili di lana, si sono intrecciate storie personali, lingue e costumi, esperienze e sogni.
All’interno delle nostre mura domestiche, ma anche di caffetterie o di centri culturali, ci incontriamo, scambiandoci consigli, ciascuna con il proprio metodo, con il proprio retaggio culturale, con la propria voglia di comunicare e condividere non solo schemi e punti, ma anche un ricordo, un progetto o una crostata di marmellata preparata con le proprie mani.
Spesso ci si dedica al proseguimento di un proprio lavoro e, allora, immagini di incarnati ambrati e poncho in alpaca si fondono, in meravigliose osmosi, a quelle di occhi azzurri e maglioni abbelliti da motivi in cui si reiterano renne stilizzate.
A volte, invece, si sferruzza per un progetto comune, come una coperta formata da tantissimi quadrati colorati cuciti fra loro, e ognuno di essi racconta una storia.
Ci sono quadrati con qualche imperfezione, realizzati dalle neofite, ancora alle prese con i primi rudimenti; ci sono quelli con il punto jacquard in toni vivaci, che ci riportano alla mente le distese verdi e il cielo azzurro del Perù; ci sono quelli monocromi, bianchi come le distese di neve e dai punti in rilievo, che evocano i cristalli di ghiaccio; ci sono quelli rosa tenue, confezionati da chi culla nel proprio ventre una bimba; ci sono quelli che ricordano le molteplici e armoniose sfumature delle matrioske.
Ma non immaginateci in esiguo numero, riunite come in una sorta di sabba di streghe della lana o di carboneria delle adepte ai ferri e all’uncinetto!
A Copenhagen la creatività e il lavoro handmade sono, infatti, notevolmente apprezzati a livello sociale: pensate che si insegna a sferruzzare, persino ai maschi, durante gli anni della scuola primaria. Ma, soprattutto visitando i celebri mercatini, che animano la città nelle piazze, in prossimità dei centri commerciali e nel fantastico parco di Tivoli, i chioschetti di Cristania, il ben noto quartiere hippy, e i negozi destinati all’hobbistica, si possono ammirare veri capolavori di fantasia e passione, che fanno parte del guardaroba di ogni danese che si rispetti.
Lo so, in Italia ci si crogiola, da tempo, nel calore estivo, ma qui l'autunno ci invoglia a circondarci di colorati gomitoli.

Arricchiamoci delle nostre reciproche differenze”.
Paul Valéry 

Emma Fenu
pubblicato su Casa e Trend

Ed ora, un assaggio della collezione 2014!



















domenica 12 ottobre 2014

Il fascino del gatto nero. Simbologie e superstizioni.




Se un gatto nero attraversa la strada che state percorrendo, è un indizio.
Vi è un enigma che aspetta di essere svelato e l’impresa che vi attende sfiorerà l’impossibile.
Sappiatelo. Dovrete fare appello al vostro sesto senso e al vostro intuito, e forse non saranno sufficienti.
Perché, se un felino corvino decide di recarsi dal lato opposto di un sentiero, evidentemente si sta recando in un luogo di propria conoscenza.
Si dirige, a passo lesto, verso l’antro di una strega? Vuole aderire ad una setta di maghi? E’ in cerca di un topolino? Ha sentito l’irresistibile richiamo d’amore di una focosa amante?
L’unico modo per saperlo è pedinarlo o porgli direttamente la domanda, nella speranza di una risposta che siate in grado di decifrare.
No, non vi porterà sfortuna, al massimo farete perdere tempo al gatto, qualora, gentilmente, volesse prestarvi ascolto.

La superstizione popolare, che taccia i gatti neri di essere menagrami e strumenti del male, ha origini antichissime e si è tramandata di generazione in generazione.
Andiamo a ritroso. Ancora e ancora.
Giungiamo a tempi arcaici, gravidi di Piramidi, di sfingi, di geroglifici, di templi candidi, di capitelli scolpiti con le foglie d’acanto.
Bruciamo incenso davanti alle effigi di figure femminili connesse alla sacralità attribuita ai gatti, ossia alle dee egizie Bastet, dalle fogge feline, e Iside. Quest'ultima, divenuta, in seguito, Artemide per i Greci e Diana per i romani, venne associata all’oscurità della notte e al nero assoluto e insondabile delle tenebre.
Con l’avvento del Cristianesimo, per scongiurare il proseguo dei culti pagani, i felini furono definiti incarnazione del demonio, in quanto simbolo di ciò che doveva essere condannato. 
I gatti neri, in particolare, assunsero una connotazione maligna, poiché ritenuti alleati delle streghe.
Donne reiette e i loro corvini amici finirono sul rogo, insieme, a migliaia, perché ennesime vittime della paura del “diverso”. Paura non solo di ciò che è estraneo, ma anche di ciò che è proprio e interiore, e, in virtù di ciò, ancora più inaccettabile.

Quando il sole viene inghiottito nel nulla, quando il sonno rallenta i ritmi del quotidiano, quando il buio elimina i contorni definiti e fa precipitare nell’incertezza, gli esseri umani, che si muovono alla ricerca di una verità solo anelabile, hanno, infatti, timore.
Timore del mistero dell’ignoto, della malia del sogno, di quanto, solo nell’invisibile, diventa percepibile.
Timore, soprattutto, della parte oscura che alberga in ciascuno: anche quando la si nega e la si imbriglia, essa scivola via e sfugge, ribelle, come una gatto nero che si muove con destrezza nella notte, indistinguibile nell’assenza di luce finché non apre gli occhi, lacerando le tenebre con due fiamme inquietanti che sembrano provenire da mondi sconosciuti e misteriosi. 
Invece, essi sono fiaccole da seguire, per trovare la strada, la propria strada.

Emma Fenu


lunedì 6 ottobre 2014

La caccia alle streghe. Quando il "diverso" fa paura.



Sguardo che ammalia e seduce.
Movenze feline, rapide e sinuose.
Mani come tele di ragno, capaci di irretire e imprigionare, con un solo gesto.
Bocca che proferisce formule arcane, attraverso le quali governare gli eventi.
A me il potere!”: un urlo che fende, come una lama intrisa di sangue, l’oscurità della notte.
Ecco la Strega, quale, nell’immaginario collettivo, a cavallo di una scopa, percorre itinerari magici, dalle pagine di fiabe e racconti fino alle feste, illuminate da zucche scavate ad arte, di Halloween.
In realtà la Strega è in ogni Donna, fin dalle origini del tempo umano.
Seguite le mie orme e la scia delle mie riflessioni: oltrepasseremo, insieme, millenni di storia nello spazio di poche righe. 
Fidatevi, parola di Strega.

In quasi tutte le culture primitive vige un analogo principio antropologico: il maschio si afferma nell’esercizio della caccia e della guerra, mentre, alla femmina, compete il mondo arcano dell’invisibile e i saperi occulti della chiromanzia e della taumaturgia. 
In principio, la Donna era tutto: fata, sibilla, maga e, soprattutto, strega.
Quest’ultima non prediceva il destino, ma, eroina sulle tracce di Prometeo, agiva su di esso: era sorella e figlia di Circe e Medea, compiva sortilegi e, per proprio sostegno, era capace di chiamare a sé le forze della natura.

Tuttavia, con il passare delle epoche, la strega divenne il simbolo della “donna diversa”, in cui confluì un amalgama di credenze sacre, elaborato in età antica, ma, soprattutto, medievale e rinascimentale, nel quale conversero la Lilith degli Ebrei, la Lamia dei Greci e le Strigi, le Saghe e le Volatiche dei Latini. 
A tali figure mitiche si affiancò, in seguito, la leggenda della brigata notturna, ossia la scorta di Diana, che venne definita triformis, in quanto dea della caccia e dei boschi, della luna e degli incantesimi notturni.

Così Omero descrisse l’incontro fra Odisseo e Circe

Ed io alla casa di Circe andavo; e molto il cuore nell’andare mi batteva. 
Mi fermai sulla porta della dea dalle belle trecce, e là fermo gridai; la dea sentì la mia voce. 
Subito, uscita fuori, aperse le porte splendenti, 
e m’invitava: e io la seguii sconvolto nel cuore. [...] 
Fece il miscuglio per me, in tazza d’oro, perché bevessi,
e il veleno vi infuse, mali meditando nel cuore”. 

La maga dell’isola di Eea , “la dea luminosa” e “dai riccioli ribelli”, è una donna che inficia le facoltà di discernimento grazie alle proprie splendide fattezze. 
L’esule eroe greco uscirà indenne dalle sue spire soltanto grazie ad un intervento divino e, comunque, solo dopo aver trascorso, con i suoi compagni, un lungo anno tra le seduzioni di Circe e delle sue ancelle.
La figura di Odisseo che, dopo essere riuscito a sopravvivere ai naufragi e alla guerra, rimane “sconvolto nel cuore” e trema, al pari di un fanciullo, al cospetto di questa figura bellissima e intrigante, apparentemente disarmata, riporta alla mente altri personaggi maschili, da Adamo in poi, che, sedotti da una donna, si sono resi colpevoli di nefandezze o coperti di ridicolo.

L’erede, seppur ben più sciagurata, della donna- maga, nell’ambito della tradizione della letteratura greca, può essere considerata Medea
I miti sulle sue origini sono due: secondo il primo la maga, figlia del re dei Colchi Eeta e discendente dal dio Sole, sarebbe la nipote di Circe e avrebbe per madre Ecate, la dea malvagia della magia e degli incantesimi. 
Un’altra tradizione la vuole, invece, figlia dell’Oceanina Idia e sorella di Circe. 
In entrambi i casi la relazione di parentela con la maga dell’Odissea è tutt’altro che casuale.
In Euripide, Medea ha un duplice volto: è una donna – vittima, ossia moglie abbandonata, sola, priva di parenti, di protezione e di difesa, ma è, anche e soprattutto, una donna – mostro, ossia forte e scaltra, che arriva a compiere il più turpe dei delitti, quello che nessuna onta subita, nessuna legge umana e divina può giustificare: l’uccisione dei propri figli.

Da qui all’Inquisizione e ai roghi su cui arsero donne e fanciulle, il passo è più breve di quanto sembri.
Gli storici si sono interrogati a lungo su tale fenomeno, una delle più atroci forme di violenza antifemminile mai compiute. 
Sono state individuate, a riguardo, parecchie ragioni: generalmente si ammette che la caccia alle streghe fu il risultato della proiezione, in un universo sovrannaturale, della miseria del tempo e dell’incapacità di opporsi agli assalti della natura. 
La società voleva dei colpevoli e li trovò tra le componenti più anticonformiste e marginali.
Lo storico Delameau, per connotare i terrori delle epoche, usa l’immagine efficace della “città assediata”, intendendo la condizione di paura che suscita la presenza “dell’altro”, del "diverso" da sé: la collettività deve riconoscere le Nemiche, difendere un ordine che dia ragione del disordine.

Io già preveggo da sì tremende deità gran bene venirne a questi cittadini”, dice, infatti, in Eschilo, Atena, riferendosi alle Eumenidi, le figlie della Notte, mentre il corteo degli ateniesi le accompagna, tra le fiaccole, sottoterra.
Le streghe furono, dunque, fondamentalmente, “capri espiatori”. 
Per gli uomini esse furono l’odiosa manifestazione del proprio femminile primitivo, che sussiste a livello inconscio, e, per le donne, esse furono l’oggetto su cui proiettare gli elementi più oscuri e incontrollabili delle muliebri pulsioni.

E oggi, chi sono le Streghe?
Chi sono coloro che si ribellano a convenzioni, che non si riconoscono in modelli stereotipati, che sono emarginate per via del proprio colore di pelle, della propria fede, della propria cultura, del proprio disagio economico? 
Guardatevi intorno. E non temete ciò che vi è ignoto: la diversità ci arricchisce e non la si può consumare neppure fra le vampe del fuoco.

Emma Fenu


domenica 21 settembre 2014

Relazioni interpersonali su Facebook.


Non è certo un mistero, io frequento assiduamente facebook.

Ingenuamente, ritenevo che tutti avessero chiare le dinamiche della comunicazione su un social network.  Tuttavia, un post di alcuni giorni fa, condiviso in bacheca, da un mio contatto (che è anche un'amica reale), mi ha portato a riflettere.

Forse è il caso di fornire il mio contributo alla causa e dire la mia, sulle modalità di relazione interpersonale su facebook. Ovviamente mi riferisco al mio caso specifico, non ho condotto una statistica fra tutti gli utenti.

1. La bacheca di facebook è uno spazio personale in cui condividere idee e ideali, opinioni, riflessioni in merito ad eventi che hanno suscitato la propria attenzione e sui quali si nutre interesse per un confronto intellettuale, civile e costruttivo.

2. Oltre a ciò, facebook non è una sessione dell'ONU, vi si affrontano tematiche più leggere, ironiche, anche decisamente "infantili". Ridere è indice di intelligenza. Ridere di inezie, fra amici complici, denota un atteggiamento verso la vita non superficiale, ma, paradossalmente, molto profondo. 
La consapevolezza, matura, del valore delle piccole cose, di uno scambio di battute fra amici di vecchia data, rende UMANI, ed è ciò di cui si dovrebbe essere più orgogliosi.

3. Arriviamo all'aspetto più dibattuto: le bachece di facebook ospitano, spesso, una carrellata di foto il cui novero fa impallidire la collezione di opere del Louvre. Tutto è oggetto di condivisione, dal piatto di risotto fumante, che attende di essere gustato, ai propri piedi sulla spiaggia, fino all'ultima serata in compagnia. 

C'è chi non ama rendere noti i dettagli della propria vita privata. Scelta, del tutto personale, estremamente condivisibile.

C'è chi non ama essere tartassato da foto di altrui gatti in tutte le pose possibili. Anch'essa scelta rispettabile. Basta usare gli appositi filtri
Nel mio caso specifico, non li uso, perchè i books fotografici di gatti, cani, piedi e visi sorridenti, mi piacciono.

C'è chi ama non pubblicare nulla, ma rendersi edotto, nell'ombra, di ogni evento della vita altrui. Non è una scelta che è in linea con il mio carattere, tuttavia non la considero affatto deprecabile, perchè, se pubblico le mie foto, sono pienamente consapevole che esse sono fruibili da tutti i miei amici. In caso volessi che restassero riservate, opterei per una lista personalizzata, o le osserverei, sul divano di casa, con mio marito.

4. E ora, la fatidica domanda: la bacheca di facebook è uno specchio fedele o deformato, ad arte, della vita reale? Si crea un identità fasulla in cui sembra che si viva in uno stato di perenne grazia?

In taluni casì, sì. E bisogna, da bravi adulti, rassegnarsi al fatto. Del resto, se vado dalla parrucchiera e la signora seduta accanto a me mi decanta le doti dei propri figlioli, non le chiederò certo di confessarmi, in tutta sincerità, se, almeno una volta, abbia pensato di avere generato un rampollo che non rasenti la divina perfezione.

Personalmente, nella mia bacheca scrivo un po' di tutto, dall'esplosione di gioia allo sfogo liberatorio. Posso affermare che è uno spaccato piuttosto affine alla mia vita. Onesto, oserei scrivere. 
Tuttavia, nessuno può pretendere di conoscermi, tramite un social network, come un amico o un parente: confido nell'umiltà e nell'intelligenza dei miei contatti. A volte vi confido troppo, va confessato.

5. Ed infine, una serie di domande, a cui rispondo ricorrendo, meramente, a personale esperienza, solo ad essa.

Gli assidui frequentatori di facebook:
sono capaci di avere una rete di affetti ed amicizie estranee al social network?
Sì, senza problemi. Non riportano danni permanenti.

Sono perennemente privi di ogni altro interesse, se non limitato al settore di cui dissertiamo?
No, di solito si interagisce su facebook mentre si svolgono altre attività: c'è chi fa pausa con un caffè, chi con un paio di like.

Dato che sono su facebook, sono tenuti ad assolvere ogni funzione richiesta, in qualità di impiegati al pubblico servizio, quali: rispondere ad ogni poke e messaggio entro 10 secondi, commentare ogni singolo post di tutti i contatti, condividere le foto della festa del decimo compleanno del figlio dell'amico del vicino di casa, creando un album, così che tutti gli invitati abbiano un ricordo entro una manciata di ore?
No, sono liberi di impiegare il proprio tempo come meglio credono.

Infine, udite udite, per molti facebook, è, oltre a quanto finora elencato, uno strumento corollario del proprio lavoro, sia per divulgazione, ma soprattutto per informazione e condivisione.

Alla fine della fiera, facebook, se lo si vive, o lo si ama o lo si odia.
In entrambi i casi, gentili signori, basta un click.

Buona navigazione!

Emma Fenu





mercoledì 10 settembre 2014

Baci infiniti, fatti d'inchiostro, di colore e di marmo.


Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disiato riso
esser baciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi baciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante
”.
Dante, Inferno, Canto V.



Di baci a lungo si scrisse, tutt’oggi si scrive e sempre si scriverà.
Ci sono parole capaci di farci sognare, immaginare, ricordare. 

Sia che si susseguano in pagine vergate con inchiostro corvino, consunte e ingiallite, perché soggette allo scorrere di troppi cicli lunari, sia in quelle candide e tese come la pelle di un bambino, digitate con Word, esse altro non attendono che di svelarsi.

Siamo travolti in un turbine infinito di frecce scagliate dall’imprevedibile Cupido, e, palpitanti, attraversiamo epopee cavalleresche e episodi biblici, fino a giungere ai romanzi e alle poesie che accennano allo sfiorarsi pudico delle labbra o che si soffermano sulla travolgente passione con cui due esseri si stringono in un bacio senza pause di respiro. 
Proprio grazie a tali letture, si è data vita a creazioni impalpabili di desiderio, ma anche a tangibili, e numerosissime, rappresentazioni artistiche.
Come non ricordare le meravigliose opere di Hayez, di Rodin, di Klimt, di Munch, di Magritte, di Chagall o di Brancusi? E mi limito a citarne solo alcune.

Tuttavia, una è la mia preferita, quella che, durante la mia prima visita al Louvre, mi ha rapito in volo l’anima e ha trascinato tutti i miei sensi in un vortice senza fiato. 
Mi ha baciata.
Si tratta del gruppo marmoreo ritraente Amore e Psiche, scolpito da Antonio Canova
I due amanti sono i protagonisti della celebre storia narrata da Apuleio, ne “Le Metamorfosi”, secondo la quale Psiche (che simboleggia, appunto, l’Anima), mortale di impareggiabile bellezza, si congiunge in matrimonio con Amore, il dio alato, pur non potendo mai scorgerne, alla luce, le fattezze. 
Spinta dalle sorelle, brucianti di invidia, ad infrangere il divieto, la fanciulla dovrà sottoporsi ad una serie di dure prove, prima di ricongiungersi al desiato marito, ottenendo, così, l’immortalità.

Nell’opera di Canova, il dio è colto nell’atto di abbracciare la donna, proteso verso la di lei bocca, impercettibilmente già dischiusa. L'armonica composizione a “incrocio”, detta chiasmo, dei corpi candidi e il cerchio creato dalle braccia di lui, catalizza l’attenzione dell'astante verso il centro, in cui l’attimo, scosso da brividi, che precede il contatto delle labbra, diviene, grazie all’Arte, immortale, imperituro e assoluto.

Il rumore di un bacio non è così forte come quello del cannone, ma la sua eco dura molto più a lungo”.
Oliver Wendell Holmes.


EmmaFenu
edito in Nordic Lifestyle Magazine




martedì 9 settembre 2014

Mille primi baci.


Mille primi baci.

Tu dammi mille baci, e quindi cento,
poi dammene altri mille, e quindi cento,
quindi mille continui, e quindi cento.
E quando poi saranno mille e mille,
nasconderemo il loro vero numero,
che non getti il malocchio l’invidioso
per un numero di baci così alto”.

Da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum,
Dein, cum milia multa fecerimus,
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut ne quis malus invidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum”.
Gaio Valerio Catullo

Siamo nati per essere baciati e per baciare.
L’intimo contatto fra le labbra, infatti, deriva dal gesto, animalesco e primitivo, di masticare il cibo per renderlo più morbido per le gengive rosee dei propri cuccioli e si evolve con la Storia dell’umanità e con la microstoria di ciascuno.

Ti nutro.
Ti mangio.
Ho un bisogno vitale di te.
Sono tua.
Sei mio.

Era ormai notte, ma il muretto su cui eravamo seduti era ancora caldo. Serbava e dispensava i raggi del sole di agosto, come uno scrigno appena dischiuso, che offre a ciascuno i suoi tesori, sfavillanti gioielli d’oro e pietre preziose, perché sa che se ne colmerà di nuovi, al mattino seguente.
Ricordo benissimo le sue scarpe, in tela rossa, con la parte interna, in gomma, consumata dall’attrito con il motore del “sì”. Anche le mie nike nere, con i profili lilla, erano logorate in quel punto preciso.

Il primo bacio.
Non importa se i visi si scontrano maldestramente. 
Non importa se devi levarti l’apparecchio per i denti in una frazione infinitesimale di secondo prima che tutto accada, benedicendo di non aver optato per quello fisso. 
Non importa se devi issarti verso la sua bocca innalzandoti sulle punte, con uno slancio che ti riporta alla memoria la ballerina di carta, protagonista della struggente fiaba di Andersen.
Quell’istante ti rimarrà impresso per sempre e ti farà increspare le labbra, le stesse che, rosse come ciliegie, tremarono, allora, d’imbarazzo, in un sorriso dolce, che saprà farsi spazio anche in un volto solcato da mille rughe e consunto da mille altri baci.

Io credo che la vita sia costellata di “primi baci”. 
Da quello della mamma, un petalo vellutato sulla propria fronte umida e rugosa di bimbo, che poco prima era cullato nelle viscere, a quello del papà, tenero nonostante le guance ruvide di barba, a quelli vibranti di passione, che sigillano, come timbri sulla cera lacca, l’inizio delle nostre storie d’amore, fino a quelli che, seguendo il ritmo ciclico dell’esistenza, restituiamo, nelle vesti di genitori, zii e nonni, a chi è appena venuto alla luce, innocente e già affamato di baci.

Emma Fenu